Chi vive in povertà nei Paesi membri dell’Unione Europea può arrivare a perdere fino a sette anni di vita rispetto a chi gode di condizioni economiche più favorevoli. È quanto emerge dall’analisi diffusa dalla Commissione europea in un rapporto in cui si evidenzia come le disuguaglianze sociali e sanitarie siano profondamente radicate e aggravate dalle politiche restrittive che hanno segnato l’ultimo decennio. Si tratta di una fotografia che smaschera una contraddizione fondamentale nel modello europeo: l’Unione che oggi denuncia le conseguenze dell’austerità è la stessa che per anni ha imposto quei vincoli che hanno compromesso diritti sociali, welfare e sanità pubblica. In una prospettiva che vorrebbe essere neutrale, l’istituzione europea afferma che «le misure di consolidamento fiscale hanno avuto un impatto negativo sulle condizioni sanitarie e sulle aspettative di vita», in particolare tra i più poveri, i più fragili, le fasce giovani e deboli. Dietro alla cifra dei cinque-sette anni di via in meno, emergono gli effetti cumulativi di tagli alla spesa sanitaria, restrizioni dei servizi sociali, compressione delle risorse per la prevenzione e una riduzione della capacità redistributiva dello Stato sociale.
L’analisi [1] parte da un dato concreto: cure, ricoveri, farmaci e servizi sanitari rappresentano un valore che incide direttamente sul reddito reale delle famiglie. La Commissione ha, infatti, adottato un approccio innovativo per misurare l’effetto che il sistema sanitario pubblico esercita su disuguaglianza e povertà, introducendo le “Transferenze Sociali in Natura sanitarie” (health STiKs) come elemento di valutazione. Il rapporto espande lo strumento EUROMOD [2] – finora usato per simulare imposte e trasferimenti monetari – includendo la valutazione del valore monetario dei benefici in natura (cure, prestazioni, farmaci) e integrandoli nel reddito disponibile delle famiglie. Calcolando questo “reddito in natura”, emerge che in quasi tutti gli Stati membri la sanità pubblica contribuisce a ridurre in maniera rilevante disuguaglianze e rischio di povertà, in molti casi con un effetto persino maggiore rispetto ai tradizionali trasferimenti monetari. Senza tale copertura, milioni di cittadini sarebbero costretti a sostenere privatamente spese ingenti per trattamenti essenziali, con conseguenze devastanti soprattutto per i redditi più bassi. Il rapporto mostra forti differenze tra i Paesi: dove i sistemi sanitari sono più universalistici e i costi diretti per i pazienti restano contenuti, la distribuzione è chiaramente progressiva. Al contrario, laddove i ticket e le spese private sono consistenti, le famiglie più povere finiscono per rinunciare più facilmente alle cure, accumulando bisogni non soddisfatti. Il fenomeno riguarda in particolare anziani, disoccupati e residenti nelle aree rurali, cioè le fasce già più vulnerabili. Un altro nodo cruciale riguarda la sostenibilità futura. L’invecchiamento della popolazione e l’aumento della spesa sanitaria rischiano, secondo le simulazioni fino al 2070, di spostare l’onere finanziario sulle generazioni più giovani. In assenza di correttivi, questi ultimi dovranno farsi carico di una quota crescente del sistema, mentre la capacità redistributiva tenderà a ridursi. Gli esperti della Commissione indicano che un sistema basato maggiormente sulla fiscalità generale, con imposte più progressive, potrebbe migliorare l’equità rispetto a modelli fondati quasi esclusivamente sui contributi sociali. La conclusione è netta: la sanità pubblica è uno degli strumenti più efficaci per ridurre le disuguaglianze e garantire coesione sociale, ma laddove i sistemi sono stati indeboliti da anni di austerità e tagli, questo potenziale viene drasticamente ridimensionato, lasciando esposti proprio i cittadini più fragili.
La Commissione europea non scopre, però, qualcosa di nuovo: numerosi studi accademici, rapporti nazionali e analisi indipendenti avevano già segnalato il legame tra austerità e peggioramento della salute della popolazione. In Grecia [3], per esempio, i dodici anni sotto il controllo della Troika hanno lasciato strascichi che ancora oggi si manifestano nei servizi pubblici e nell’efficacia del sistema sanitario del Paese, malgrado l’uscita formale dal regime di sorveglianza finanziaria: i tagli agli ospedali, il depotenziamento delle cure primarie e la crisi occupazionale hanno amplificato le disuguaglianze sociali. In Italia [4] la ricetta europea per il periodo post-pandemico non è cambiata: austerity e licenziamenti sono stati indicati come la risposta prioritaria, come se il welfare e la salute fossero una variabile elastica, sacrificabile sull’altare dell’equilibrio di bilancio. Bruxelles, d’altra parte, non si tira indietro quando può raccomandare i tagli fondati sulla compressione del deficit e del debito pubblico. Nel 2022, la Banca Centrale Europea, con il cosiddetto “nuovo scudo anti-spread [5]”, ha riattivato modalità di intervento simili alla Troika, imponendo condizioni rigide ai Paesi in difficoltà. Il paradosso è lampante: chi oggi denuncia gli effetti delle politiche restrittive ne è stato al tempo stesso promotore attraverso i vincoli macroeconomici che ha subordinato ai bilanci nazionali. In ambito sanitario, gli effetti si misurano non solo in anni di vita persi, ma in maggiore mortalità evitabile, peggior gestione delle malattie croniche, rinunce alle cure e disagi diffusi. Non basta denunciare i tagli senza cambiare il vincolo strutturale che li impone, legando rigore finanziario e politiche sociali. Altrimenti il monito resterà amaro: l’Unione che oggi denuncia le vittime dell’austerità è la stessa che ha imposto quelle misure.