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“Gabbiani”, una poesia di Vincenzo Cardarelli (1942)

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

I due orizzonti del poeta moderno sono, il primo,  la sua posizione nel mondo, diciamo pure l’autobiografia, il secondo, il lavoro con il linguaggio: la poesia insomma come gioco, il cui meccanismo, scriveva Jurij Lotman, consiste nella costante coscienza della possibilità di altri significati, diversi da quelli che vengono immediatamente recepiti.

I significati “scintillano”, secondo Lotman, perché quelli attuali, presenti, si rifrangono su altri che possono scaturire dalla visione dei lettori o che i versi contengono impliciti, pronti a manifestarsi.

Sul lato autobiografico Cardarelli è stato esplicito. In un suo scritto osserva che il poeta, lui, è nato povero «ed è rimasto tale, per orgoglio di casta» e che «ad ogni nuovo inverno si ritrova esposto al freddo, senza panni sufficienti, come l’uomo delle caverne. E la sua caverna è una camera d’affitto, dove egli vive la vita mortificata e servile del subinquilino… Impossibile, dunque, per lui, cambiare alloggio, muoversi, viaggiare, sottrarsi, anche per breve periodo, alla tirannia del domicilio»

La sua vita reale, tuttavia, nomade ma solitaria trova riscontro nell’inquietudine dei gabbiani, nello sfiorare la realtà per acciuffarne un senso come preda.

Il linguaggio della poesia permette al mondo descritto – e dunque anche al poeta – di uscire dai propri confini, di trasformare la percezione fisica del “mare” in un immaginifico “destino” illimitato. Il ritmo dei versi che prima vede “loro/volo/sfioro” e “nido/cibo” a formare due sequenze allitteranti, sospese poi nella quiete, produce un cambio di registro, traduce le immagini in uno scopo, in una visione: “balenando in burrasca” genera una immagine luminosa dentro l’oscurità della tempesta.

La creazione artistica si innalza fotograficamente in una luce sfolgorante. «Il vero amore è una quiete accesa»: scriveva Giuseppe Ungaretti (in Silenzio in Liguria) e Montale ne La bufera : «il lampo che candisce/ alberi e muro e li sorprende in quella/ eternità d’istante».

Dire ‘vita’ per il poeta è dire appunto burrasca in una eternità, breve ma dirompente, che esce dai limiti dell’ordinario, gelosa quasi di scintillanti segreti immaginari.

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Gian Paolo Caprettini

Ha insegnato all'Università di Torino dal 1975 al 2013, dove è stato professore ordinario di Semiotica e Semiologia del Cinema, ha diretto Extracampus, la TV dell'Università, e il Master di Giornalismo. I suoi libri più recenti: Scrivere come sognare (Cartman), Vertigini dell'immaginario (con A. Bálzola, Meltemi), Complice la poesia (L'Indipendente), Dizionario della fiaba italiana (Meltemi).