La Commissione europea si prepara a introdurre dazi sul petrolio russo che ancora raggiunge il mercato interno. La notizia, filtrata da Bruxelles, segna un passo che arriva all’indomani delle pressioni esercitate da Donald Trump [1] all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dove il presidente americano ha invitato gli europei a interrompere ogni importazione di greggio da Mosca, come mezzo per mettere pressione sul Cremlino e porre fine alla guerra in Ucraina. A conferma di un copione ormai consolidato, l’Unione sembra più incline a recepire le direttive provenienti da Washington che a difendere una propria autonomia strategica. L’iniziativa punta a colpire in particolare quei Paesi che ancora dipendono dall’oleodotto Druzhba, come Ungheria e Slovacchia, rimasti finora esclusi dall’embargo sul petrolio russo. Si stima che ciascuno di questi Paesi riceva 100mila barili al giorno di petrolio degli Urali. Si tratterebbe di un provvedimento distinto dai pacchetti di sanzioni già adottati, concepito per ridurre l’attrattiva economica delle importazioni. «Il presidente Trump ha assolutamente ragione. Ci stiamo lavorando», ha chiosato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. L’operazione, però, non nasce da un’analisi interna, ma dall’urgenza di allinearsi alla volontà americana: un segnale che la linea politica dell’Unione continua a modellarsi più sulle pressioni esterne che sugli interessi reali del continente.
Le reazioni non si sono fatte attendere. L’Ungheria ha ribadito la propria contrarietà, sottolineando che il petrolio russo rappresenta ancora oggi l’unico vettore affidabile per garantire stabilità energetica e prezzi sostenibili. Budapest rifiuta di sacrificare la propria sicurezza energetica sull’altare delle richieste statunitensi e denuncia una misura che rischia di aggravare ulteriormente i costi per i cittadini europei senza intaccare in modo decisivo le entrate di Mosca. In una recente intervista al Guardian [2], il ministro degli Esteri ungherese Péter Szijjártó ha dichiarato che la fornitura di petrolio e gas è una «questione puramente fisica» che dipende dai collegamenti tra il Paese senza sbocco sul mare e i fornitori di energia e che l’Ungheria non può «garantire un approvvigionamento sicuro» senza le fonti russe di petrolio o gas. Anche la Slovacchia, seppur con toni più cauti, condivide la medesima preoccupazione. Dal canto suo, il Cremlino tramite il suo portavoce Dmitry Peskov ha riconosciuto che «Trump è un vero uomo d’affari» e che «sta cercando di costringere il mondo interno a spendere più soldi per il petrolio e il gas americani». Il nodo è evidente: finora le deroghe avevano permesso a determinati Paesi di continuare a importare greggio, giustificate dal rischio di un collasso economico interno. Introdurre ora dazi significherebbe ribaltare quell’equilibrio precario, imponendo un prezzo politico e sociale a comunità già messe a dura prova dall’aumento dei costi energetici. Per di più, il greggio russo, grazie ai suoi vantaggi di prezzo, resta concorrenziale rispetto ad altre fonti: colpirlo con nuove tariffe potrebbe semplicemente tradursi in un trasferimento di costi ai consumatori e a interi comparti industriali.
A differenza delle sanzioni, che dipendono dall’unanimità di tutti i 27 Stati membri, i dazi richiedono una maggioranza qualificata per essere approvati, il che significa che non si applicheranno veti individuali. Il quadro che emerge è quello di un’Europa debole, più reattiva alle pressioni d’oltreoceano che capace di sviluppare una propria strategia. Dietro la retorica della fermezza contro Mosca si intravede una realtà scomoda: le decisioni cruciali in materia energetica non nascono da un dibattito interno, ma vengono adottate sull’onda degli impulsi americani. L’Unione europea si trova così a dover rincorrere, incapace di elaborare una visione autonoma, intrappolata in una dipendenza che rischia di minarne la credibilità. Il tentativo di aggirare le regole dell’unanimità, ricorrendo a strumenti che consentano di bypassare i veti nazionali, accentua questa dinamica: da un lato la Commissione si piega alle richieste di Washington, dall’altro cerca di limitare le voci dissenzienti che ricordano la necessità di tutelare le esigenze dei cittadini.