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L’economia dell’IA, per adesso, è molto diversa da come viene solitamente raccontata

L’intelligenza artificiale è ormai una tecnologia d’uso comune, volenti o nolenti tutti finiscono con il percepire i risultati del suo avvento. Eppure, nonostante la sua capillare diffusione, le aziende faticano ancora oggi a trovare degli usi applicativi capaci di garantire quel genere di stravolgimento commerciale che avrebbe dovuto stravolgere l’intero mondo imprenditoriale. Una posizione che complica non poco la possibilità di monetizzare l’IA e che rende più fragile l’intero ecosistema finanziario.

Sin dall’avvento dei primi modelli GPT, le aziende tecnologiche hanno promesso una portentosa rivoluzione industriale e scientifica. I modelli di linguaggio di grandi dimensioni e la semplificazione delle interazioni uomo-macchina avrebbero dovuto curare malattie, salvare il mondo dal surriscaldamento globale e, soprattutto, offrire nuovi mezzi su cui costruire una rinnovata crescita economica, se non addirittura un sistema di reddito universale di base [1]. Un insieme di obiettivi ambiziosi che, però, viene solitamente presentato con estrema vaghezza.

Il Financial Times [2] è voluto andare oltre alla dimensione aneddotica, verificando le trascrizioni dei risultati economici e i documenti depositati dalle realtà elencate nell’indice azionario S&P 500 alla Commissione per i Titoli e gli Scambi (SEC). A differenza dei comunicati aziendali e alle conferenze sugli utili, questi carteggi sono obbligati a elencare una serie di rischi percepiti che raramente finiscono all’orecchio del pubblico. Dati alla mano, la testata ha riscontrato che, nonostante la crescente diffusione di questi strumenti e i toni generalmente entusiastici, i lati positivi menzionati tendano a essere indefiniti, mentre le criticità assumono una dimensione concreta, soprattutto sul frangente della cybersicurezza. In generale, il numero delle aziende che esprime un’opinione positiva nei confronti di queste tecnologie è calato rispetto a quanto registrato nel 2022.

L’ipotesi avanzata è che, ora come ora, gli investimenti nell’IA siano più che altro dettati dalla FOMO, ovvero dalla paura di essere soppiantati da un concorrente che usa strumenti di IA. Una vera e propria “corsa alle armi” che, come le vere escalation belliche, finisce con l’autoalimentarsi. Una tendenza che viene prevedibilmente fomentata dai produttori degli strumenti: Sam Altman, CEO di OpenAI, ha scritto [3]recentemente sul suo blog che “l’accesso all’IA diventerà un motore fondamentale dell’economia”. Nel frattempo, il report The GenAI Divide: State of AI in Business 2025, pubblicato lo scorso agosto dai ricercatori del MIT, stima [4]che il 95% dei progetti pilota aziendali basati sull’intelligenza artificiale generativa non hanno soddisfatto le aspettative.

Sul fronte dei consumatori, uno dei più grandi ostacoli della corrente tecnologia è rappresentato dalle cosiddette “allucinazioni”, errori sistemici che fanno sì che le IA adoperate a fini generali tendano a produrre risultati inconsistenti e inaffidabili, che devono essere verificati e supervisionati da personale umano. Un processo che rischia di portare via più tempo di quanto non ne faccia guadagnare. Dal lato delle Big Tech, si aggiunge la criticità finanziaria: i prodotti commercializzati non sono attualmente sostenibili a livello economico e rappresentano anzi un costante salasso di risorse [5].

Con simili premesse, inizia a risultare difficile convincere gli investitori che sia il caso di continuare a scommettere cifre sempre più grandi nell’IA, tuttavia le “Magnifiche Sette” – Apple, Microsoft, Amazon, Alphabet (Google), Meta, Nvidia e Tesla – rappresentano buona parte della crescita dell’S&P 500 e un loro eventuale crollo [6] porterebbe conseguenze che riverberebbero sull’intera Wall Street.

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Walter Ferri

Giornalista milanese, per L’Indipendente si occupa della stesura di articoli di analisi nel campo della tecnologia, dei diritti informatici, della privacy e dei nuovi media, indagando le implicazioni sociali ed etiche delle nuove tecnologie. È coautore e curatore del libro Sopravvivere nell'era dell'Intelligenza Artificiale.