Negli ultimi giorni, la cronaca internazionale è stata monopolizzata dalla notizia dello sconfinamento [1] di alcuni presunti droni “russi” nello spazio aereo polacco e romeno. Presunti perchè, al momento, la loro attribuzione resta incerta, dal momento che non esistono numeri seriali o componenti identificativi che permettano di identificarli in maniera inequivocabile. Non esiste nemmeno, al momento, alcuna prova che quelli atterrati in Polonia fossero armati, mentre per quanto riguarda la Romania le ricerche sono ancora in corso. Nonostante ciò, è stata immediatamente costruita una cornice mediatica che indica la Russia come colpevole di “aggressione”, con il risultato di rafforzare il clima di tensione internazionale e spingere i Paesi NATO ad invocare il rafforzamento delle proprie difese.
Cosa sappiamo
In Romania, nella serata del 13 settembre, il Ministero della Difesa ha comunicato di aver rilevato un drone nei radar, inviando F-16 a monitorarlo fino alla sparizione del segnale vicino a Chilia Veche, senza però attribuirne la provenienza e annunciando ricerche per eventuali rottami. Per l’incidente polacco del 10 settembre si parla, invece, di 19 apparecchi del tipo Gerbera, utilizzati in genere per osservazione o saturazione, quindi, non armati. Tre sono stati abbattuti dai caccia NATO, tre sarebbero atterrati da soli nei campi, uno si è schiantato contro un’abitazione provocando danni materiali ma nessuna vittima, mentre degli altri non si conosce la sorte. Alcuni media hanno presentato i droni come missili o armi letali, ma le analisi sui rottami rinvenuti a Lublino non hanno evidenziato né esplosivi né carichi militari. L’autonomia limitata dei modelli Gerbera rende improbabile che potessero raggiungere in profondità il territorio polacco partendo dalla Russia: lo stesso Ministero della Difesa russo ha chiarito che nelle operazioni notturne non erano previsti obiettivi in Polonia. Mosca si è detta pronta a discutere l’accaduto con la controparte polacca, segnalando la volontà di evitare un’ulteriore escalation. A questo si aggiunge che nessun frammento recuperato è stato collegato con certezza a droni russi tramite numeri seriali o componenti identificativi.
Proprio la natura degli apparecchi recuperati su suolo polacco solleva dubbi [2] sulla ricostruzione mainstream: si tratta, infatti, di droni-esca [3], leggeri, spesso privi di carico o con componentistica minima, costruiti con materiali economici come polistirolo, senza testata esplosiva. Le perizie preliminari effettuate in Polonia non hanno, infatti, rilevato tracce di esplosivi, elemento che smentisce l’idea di un attacco militare diretto. Anche l’autonomia di questi modelli – stimata tra 300 e 600 chilometri – non coincide con la traiettoria attribuita a Mosca: se il lancio fosse avvenuto dalla Russia, avrebbero dovuto superare distanze poco compatibili con le loro prestazioni. Inoltre, la stessa NATO [4] ha riconosciuto di non avere certezze né sul numero dei droni effettivamente entrati nello spazio polacco, né sul fatto che l’incursione fosse intenzionale. Il fatto che alcuni droni abbiano sorvolato indisturbati per diversi chilometri il cielo polacco, siano stati recuperati quasi intatti, siano precipitati in campi senza causare vittime né danni rilevanti, suggerisce che non si sia trattato di un’azione militare offensiva, ma piuttosto dell’impiego di apparecchi da ricognizione o destinati a saturare le difese. Un ulteriore elemento contraddittorio emerge dalle dichiarazioni del generale Wiesław Kukuła, Capo di Stato maggiore polacco, e del ministro degli Esteri Sikorski, secondo i quali sarebbe stata la Bielorussia ad avvertire Varsavia della presenza dei droni fuori rotta. Una circostanza che mal si concilia con l’idea di un “test russo” deliberato per sondare le difese NATO.
Anche se le accuse contro Mosca restano per ora non provate, Varsavia ha convocato l’incaricato d’affari russo, presentando una nota di protesta, e ha invocato l’Articolo 4 del Trattato della NATO, non l’Articolo 5: un fatto che segnala esplicitamente che, al di là dei toni, il governo polacco non considera l’accaduto come un’aggressione armata. Le possibili spiegazioni dell’incidente sono molteplici e nessuna appare definitiva. L’ipotesi di un attacco deliberato russo appare la meno plausibile: perché rischiare un’escalation con la NATO con 19 droni da ricognizione non armati? Altre ipotesi parlano di false flag ucraine, di test di prontezza delle difese NATO o di disturbi elettronici che avrebbero deviato gli apparecchi. Una tesi ancora diversa, avanzata dallo stesso Zelensky [5], suggerisce che Mosca possa avere interesse a costringere l’Alleanza a trattenere le proprie difese antiaeree per proteggere i confini anziché inviarle in Ucraina. In sintesi, Kiev teme che Mosca possa avere pianificato le incursioni nello spazio aereo polacco e romeno in modo che la NATO preferisca rafforzare le proprie difese anziché spedire sistemi antiaerei avanzati in Ucraina. In ogni caso, resta un elemento chiave: nessuna di queste teorie ha trovato conferma pubblica e si rimane nel mero piano delle ipotesi.
La NATO mostra i muscoli
Nel frattempo, però, la vicenda ha già prodotto conseguenze tangibili: rafforzamento del fianco orientale della NATO tramite l’operazione Sentinella dell’Est [6], dispiegamento [7] di circa quarantamila soldati lungo i confini orientali con la Bielorussia e la Russia, nuove forniture militari. La Polonia, inoltre, ha confermato l’arrivo di 43,7 miliardi di euro dal programma [8] SAFE per incrementare sistemi antiaerei, droni e artiglieria, mentre la Commissione europea ha rilanciato il progetto dello “Eastern [9]Shield [9]”, 700 km di fortificazioni, barriere, infrastrutture e difesa anti-drone al confine con Bielorussia e Russia. Non si tratta soltanto di sicurezza: è un meccanismo che consente di convogliare risorse e consolidare consenso politico. Lo schema alla base è simile a quanto già avvenuto in passato. Negli ultimi due anni, la Russia è stata più volte accusata di sabotaggi in Europa – incendi sospetti, danneggiamenti e incursioni – ma senza prove pubbliche definitive. Episodi in Polonia, Norvegia e Regno Unito sono stati attribuiti a fantomatiche reti filorusse, mentre Mosca ha sempre respinto le accuse come infondate, parlando di narrativa costruita ad hoc. Più recentemente, con le presunte interferenze [10] al sistema GPS del volo che trasportava Ursula von der Leyen verso Sofia, i media occidentali hanno indicato senza esitazione Mosca come colpevole (si parlò apertamente di “jamming russo” e di “guerra ibrida”), fino alla smentita ufficiale di Flightradar24 prima e poi del governo bulgaro: in definitiva, il sabotaggio [11] che ha monopolizzato le prime pagine dei media internazionali non c’è mai stato. Lo stesso schema si era visto con l’attentato al Nord Stream, per il quale la Russia fu subito additata come responsabile: le indagini successive hanno portato all’arresto in Italia di un cittadino ucraino, dimostrando che la realtà è più complessa e a volte molto diversa rispetto alle versioni precostituite. La narrazione che punta immediatamente il dito contro Mosca risulta funzionale: permette di consolidare l’idea di una minaccia russa estesa oltre l’Ucraina e di giustificare nuove misure militari e finanziarie, a prescindere dalla solidità delle prove. Alla fine, la domanda centrale resta senza risposta: a chi giova davvero questo sconfinamento? Alla Russia, che rischierebbe un conflitto aperto con la NATO, o piuttosto a chi può trasformare l’ennesimo episodio ambiguo in leva politica per consolidare consenso, ottenere fondi e rafforzare un’escalation che sembra non avere fine? Le prove tecniche, al momento, non autorizzano conclusioni affrettate, ma la costruzione della narrazione mainstream procede a prescindere, sacrificando la prudenza e la verifica sull’altare della convenienza geopolitica.