Jair Messias Bolsonaro, ex presidente del Brasile, è stato condannato dalla Corte Suprema a 27 anni e tre mesi di carcere per il tentativo di colpo di Stato del 2022 e per altri reati connessi. La sentenza, giunta l’11 settembre 2025, ha sancito la responsabilità diretta del leader della destra brasiliana in un piano volto a sovvertire i risultati elettorali e a impedire l’insediamento di Luiz Inácio Lula da Silva. Dopo i giudici Cármen Lúcia, Alexandre de Moraes, e Flávio Dino, anche il presidente del collegio, Cristiano Zanin ha ritenuto il leader di destra colpevole di tutte le accuse. Bolsonaro, attualmente agli arresti domiciliari a Brasilia, potrà presentare ricorso contro la sentenza. Con quattro voti favorevoli e quello contrario del giudice Luiz Fux, la corte ha stabilito che Bolsonaro non solo ha alimentato le accuse infondate di brogli, ma ha orchestrato un vero e proprio progetto golpista insieme a ex ministri e vertici militari. È la prima volta nella storia del Paese che un ex Capo di Stato viene giudicato colpevole per aver attentato all’ordine democratico.
Il processo, noto come Acción Penal 2668, ha svelato un disegno [1] preciso e organizzato. Non si trattava di semplici dichiarazioni incendiarie, ma di un piano strutturato che prevedeva la proclamazione dello stato di emergenza, il coinvolgimento delle forze armate e persino la pianificazione di arresti mirati e attentati contro figure di spicco della magistratura e delle istituzioni. Tra i condannati, oltre a Jair Bolsonaro, figurano nomi di primo piano del suo governo: l’ex ministro della Difesa Walter Braga Netto, il tenente colonnello Mauro Cid – testimone centrale dell’accusa –, l’ex comandante della Marina Almir Garnier, l’ex direttore dell’intelligence Alexandre Ramagem, i generali ed ex ministri Augusto Heleno e Paulo Sergio Noguera e l’ex ministro della Giustizia Anderson Torres. Il documento di 135 pagine diffuso dalla Corte Suprema è stato decisivo: ricostruisce come tra il 2022 e il 2023 Bolsonaro e i suoi alleati elaborarono decreti per annullare il voto, arrestare giudici come Alexandre de Moraes e Gilmar Mendes, fermare il presidente del Senato Rodrigo Pacheco e convocare nuove elezioni. Alcuni vertici militari, soprattutto nella Marina, si mostrarono pronti a sostenere il golpe, mentre esercito e aeronautica si opposero. Nei mesi precedenti al voto, Bolsonaro e i suoi ministri descrivevano la competizione elettorale come una guerra, accusando il sistema di voto elettronico di frodi mai provate. Nell’estate del 2022 il clima era già esplosivo. Il 19 novembre furono presentate le prime bozze di decreto golpista; il 7 dicembre Bolsonaro riunì i capi delle Forze Armate per convincerli ad agire. Il capo della Marina Garnier aderì, altri mostrarono resistenze, ma due giorni dopo il generale Theophilo de Oliveira promise di “prendere misure per garantire il colpo di Stato”. Parallelamente, le “milizie digitali” pro-Bolsonaro diffondevano campagne d’odio contro i vertici militari contrari, accusandoli di tradimento. Alla prova dei fatti, però, le forze armate non trovarono coesione. Il 30 ottobre 2022 Lula vinse al ballottaggio con il 50,9% contro il 49,1% e si insediò il 1° gennaio 2023, in una cerimonia disertata da Bolsonaro, già rifugiatosi negli Stati Uniti. Una settimana dopo, migliaia di suoi sostenitori assaltarono Parlamento, Corte Suprema e Palazzo presidenziale a Brasilia, devastando le sedi istituzionali. Quell’episodio, definito dalla magistratura l’ultimo disperato tentativo di fermare la transizione democratica, insieme alle prove raccolte dalla polizia federale, è stato determinante per la condanna dell’ex presidente e dei suoi complici.
Immediato è arrivato il commento di Donald Trump [2], che ha parlato di “condanna sorprendente”, affermando che quanto avvenuto al leader brasiliano è ciò che “hanno cercato di fare” con lui. Bolsonaro è stato a lungo visto non solo come un alleato politico del tycoon, ma come una sorta di “vassallo” della sua influenza: la sua presidenza si allineava alle priorità dell’amministrazione statunitense in modo quasi automatico. Per anni, Bolsonaro [3] è stato presentato come simbolo del sovranismo e del populismo di destra, l’uomo che si opponeva al globalismo e si ergeva a paladino contro le élite e il globalismo, ma la sua traiettoria politica racconta ben altro: ha esaltato la dittatura militare e regimi autoritari come quelli di Pinochet e Fujimori, ha inizialmente difeso posizioni interventiste, salvo poi piegarsi al neoliberismo e alle logiche delle multinazionali. Durante la sua presidenza ha favorito l’agrobusiness e l’estrattivismo, aggravando deforestazione e disuguaglianze sociali, e ha stretto rapporti con figure come Elon Musk per l’accesso alle risorse strategiche del Paese. In politica estera ha oscillato tra l’allineamento a Washington e l’opportunismo dei BRICS, mostrando più sudditanza e calcolo che coerenza. Pur dipingendosi come oppositore del globalismo, Bolsonaro ha chiesto e ottenuto il sostegno degli Stati Uniti per l’ingresso del Brasile nell’OCSE, ha sostenuto Juan Guaidó contro Maduro in Venezuela, ha appoggiato Israele negando dignità statuale alla Palestina e nel 2019 si è detto favorevole a ospitare una base militare americana e ad aderire alla NATO. La condanna per il tentato golpe chiude così la parabola di un leader che ha usato lo Stato per perpetuare il proprio potere, rivelandosi parte del meccanismo che a parole voleva combattere. Intanto il Brasile, con Lula, sembra oggi aver imboccato una strada opposta, divenendo una spina nel fianco per gli Stati Uniti: rafforzando i legami con i BRICS e allontanandosi dall’orbita di Trump – soprattutto dopo la minaccia di dazi [4] fino al 50% sulle merci brasiliane con lo scopo di punire le politiche interne e il trattamento giudiziario riservato a Bolsonaro – e si propone come attore centrale di un ordine multipolare che sfida la guerra commerciale e il protezionismo americani e cerca nuove alleanze strategiche al di fuori dell’egemonia a stelle e strisce.