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Scudo penale per i medici: per accertare la colpa si terrà conto delle “scarse risorse”

Il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge delega che istituzionalizza lo scudo penale per i medici. La misura, già sperimentata in forma emergenziale durante la pandemia e poi prorogata, diventa ora una disposizione stabile del sistema giuridico italiano. Secondo il testo, i professionisti sanitari saranno punibili solo in caso di “colpa grave”, a condizione di aver rispettato linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate al caso concreto. Il giudice dovrà valutare la condotta del medico tenendo conto di una serie di fattori: la scarsità delle risorse umane e dei materiali disponibili, le carenze organizzative inevitabili, la complessità delle patologie trattate, l’urgenza della situazione clinica e la limitatezza delle conoscenze scientifiche o delle terapie disponibili al momento del fatto. Il provvedimento riconosce, di fatto, la scarsità di mezzi di cui dispongono i medici per far fronte al proprio lavoro, ma non vengono proposte soluzioni per ovviare al problema.

L’obiettivo dichiarato dal governo è duplice: da un lato, ridurre la medicina difensiva – ossia la pratica di prescrivere esami e terapie superflue per timore di azioni legali, un fenomeno che costa al Servizio sanitario oltre dieci miliardi di euro l’anno – dall’altro, rendere più attrattiva la carriera pubblica e frenare la fuga di professionisti verso il privato, in un contesto segnato da turni massacranti, organici ridotti e carenze strutturali che espongono i medici al rischio di errori. Il disegno di legge contiene anche altre misure, come l’istituzione di una Scuola di specializzazione per i medici di famiglia al posto dei corsi regionali, incentivi per gli specializzandi e una riorganizzazione della governance sanitaria, compresa la regolazione dell’uso dell’intelligenza artificiale.

L’approvazione del provvedimento [1] ha diviso la categoria. Pur salutato come un passo avanti da gran parte dei sindacati medici – il presidente della Fnomceo [2], Filippo Anelli, ha accolto il provvedimento come “molto atteso dalla professione” – lo scudo penale solleva anche diverse critiche. In particolare, viene sottolineata la vaghezza della nozione di “colpa grave”, che potrebbe lasciare ampio margine di interpretazione ai giudici. Il presidente della Federazione Cimo-Fesmed [3], Guido Quici, ha sottolineato “il rischio che, nel concreto, per i medici non cambi nulla”, poiché mancando “la definizione di colpa grave, che sarà qualificata di volta in volta dal giudice”, il professionista dovrà comunque affrontare un processo. La vaghezza di questi parametri consente di fatto anche una deresponsabilizzazione, soprattutto in un contesto sanitario nazionale cronicamente sottofinanziato, afflitto da carenze strutturali e da una gestione delle risorse spesso inefficiente. Negli ultimi anni, le denunce per malasanità sono aumentate, segnale che il problema non è l’“accanimento giudiziario” contro i medici, ma la reale insoddisfazione dei cittadini per le cure ricevute. La legge Gelli-Bianco [4] del 2017 aveva cercato un equilibrio tra tutela dei pazienti e serenità dei professionisti; con la nuova norma questo equilibrio si rompe a favore dei secondi. Il provvedimento apre una zona grigia in cui la negligenza, se non gravissima, può facilmente confondersi con difficoltà operative: il pericolo è che chi può si rivolga sempre più al privato, mentre chi resta nel pubblico subisca un’assistenza dove l’errore medico non è solo possibile, ma difficilmente punibile. Al tempo stesso, la riforma lascia in ombra le responsabilità delle strutture sanitarie e delle direzioni ospedaliere: non sono previsti controlli rafforzati né sanzioni per inefficienze organizzative. La critica principale, però, riguarda il paradosso insito nel testo. Lo Stato riconosce la scarsità di risorse come elemento da considerare nel processo penale, ma allo stesso tempo non prevede alcun investimento strutturale per colmare quelle carenze. In altre parole, si accetta come dato di fatto che il personale sanitario operi con organici ridotti, attrezzature obsolete e turni massacranti e ci si limita a esentare il medico da responsabilità penale in simili condizioni, senza però affrontare la radice del problema. Il risultato è che si proteggono i professionisti dopo l’errore, ma non si forniscono gli strumenti per evitarlo.

Il sistema è al collasso, eppure la norma, pur proponendosi di proteggere i professionisti, non affronta il degrado strutturale, spostando così il baricentro della responsabilità e lasciando i cittadini sempre più soli di fronte agli errori sanitari. I numeri, infatti, fotografano una crisi profonda: secondo un sondaggio [5] del 2024, il 72% dei medici del pubblico vorrebbe lasciare il Servizio sanitario nazionale, esaurito da carichi di lavoro insostenibili e da una vita personale compromessa. Inoltre, un rapporto [6] della federazione medici denuncia che, solo negli ultimi dieci anni, sono stati chiusi oltre 100 ospedali e pronto soccorso, persi quasi 39.000 posti letto e mancano quasi 30.000 operatori tra cui oltre 4.300 medici. Nel frattempo, il cittadino rinuncia alle cure: 4 milioni di italiani hanno evitato visite o esami nel 2024 a causa dei tempi d’attesa, un aumento del 51% in un anno. Questo mentre la carenza di medici di base rischia di lasciare, entro il 2026, fino a 15 milioni [7] di italiani senza medico di famiglia. Il rischio concreto è che lo scudo penale si trasformi in una sorta di copertura giuridica che attenua il contenzioso, ma non riduce gli errori medici. Perché gli errori diminuiscano, servirebbero investimenti in personale, formazione, tecnologia, logistica e gestione del rischio clinico. In assenza di questi elementi, la norma rischia di spostare l’attenzione dalle cause strutturali alle conseguenze giudiziarie, senza sanare i veri nodi del sistema. Il medico continuerà a lavorare in ospedali sotto organico, con macchinari insufficienti e tempi di attesa ingestibili, mentre il paziente rimane esposto agli stessi rischi di prima.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.