È terminata con un nulla di fatto la maxi-inchiesta sulla cannabis light iniziata due anni fa. L’indagine è stata una delle più grandi di sempre nel settore della canapa: ha interessato 14 persone e diverse aziende, accusate di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti; nell’ambito dell’inchiesta era stato disposto il sequestro di circa 2 tonnellate di infiorescenze, dal valore complessivo di 18 milioni di euro. Le accuse si basavano sull’ipotesi che la cannabis sequestrata avesse livelli di concentrazione di THC superiori a quelli imposti dai limiti di legge, ma il tribunale d’appello di Torino ha archiviato il caso, sostenendo che l’attività delle aziende fosse «essenzialmente lecita». Nonostante l’archiviazione, i danni al settore restano: le migliaia di chili sequestrate sono infatti finite al macero perché non rispettano più gli standard di qualità; senza considerare che oggi, dopo l’approvazione del DL Sicurezza, il governo ha reso illegale l’intera filiera delle infiorescenze, dalla coltivazione fino alla vendita.
L’inchiesta contro la cannabis light è stata avviata dalla procura di Torino nella primavera del 2023, quando aveva mandato i carabinieri del NAS a perquisire 49 rivenditori tra punti vendita e distributori automatici situati nelle province di Torino, Cuneo, Forlì-Cesena, Lecce, Milano, Monza e Brianza e Rimini. Riusciti a risalire ai fornitori, i carabinieri sono arrivati alle singole aziende agricole, e verso la fine di maggio hanno condotto un’operazione nella quale sono stati sequestrati oltre 1.800 chili di infiorescenze. Queste, ci spiega Massimo Munno, avvocato di una delle aziende coinvolte, sono state consegnate ai consulenti del pubblico ministero, che hanno avviato le analisi su campioni dei prodotti. Vista la gran quantità dei lotti sequestrati, le analisi sono andate avanti per parecchio tempo, e sono terminate solo qualche mese fa.
La procura accusava le aziende coinvolte di produzione e traffico di stupefacenti, contraffazione di merce in danno della salute, somministrazione di medicinali pericolosi, frode in commercio e vendita di medicinali senza autorizzazione, ipotizzando inoltre che alcune delle infiorescenze fossero state trattate appositamente per gonfiare i livelli di THC. Nel 2023, ci precisa Munno, i prodotti di cannabis light potevano essere commercializzati solo se la loro concentrazione di THC risultava inferiore allo 0,4%. In seguito alle analisi condotte sul materiale sequestrato è emerso che solo una minima parte delle infiorescenze risultava poco al di sopra della soglia di sicurezza, e che non vi era stata alcuna manomissione sui prodotti.
L’azienda rappresentata da Munno si è vista sequestrare 100 chili di infiorescenze, dal valore complessivo di circa 200mila euro. Molti di quei prodotti erano già stati oggetto di tutte le analisi necessarie per la commercializzazione; Munno e i suoi assistiti hanno consegnato immediatamente la documentazione alle autorità, ma non sono riusciti a ottenere il dissequestro anticipato. In seguito alle analisi, i consulenti hanno trovato che solo un chilo del materiale sequestrato sforava la soglia limite; questo era parte dei lotti non ancora analizzati dall’azienda, e dunque non commercializzato, e probabilmente era stato oggetto di una «contaminazione involontaria». L’azienda, ci spiega Munno, segue un rigido protocollo interno di trattamento delle infiorescenze che sforano la soglia limite, e prevede la distruzione – previa segnalazione alle autorità – di tutto il materiale fuori norma. Vista la ridotta quantità di infiorescenze al di sopra dei livelli di THC, per giunta non ancora in vendita, il pm ha chiesto l’archiviazione dell’indagine, che è stata accettata dal gip.
La vicenda, si legge nella richiesta di archiviazione del tribunale, va «ridimensionata alla luce dell’attività commerciale, essenzialmente lecita, svolta dagli indagati, della marginalità del materiale oltre soglia rinvenuto e della nota imprevedibilità» dei test; è stato dunque disposto il dissequestro degli oltre 1.800 chili di cannabis light prelevati, che tuttavia oggi non possono essere commercializzati. Oltre al fatto che, due anni dopo il loro ritiro, i prodotti non rispetterebbero più gli standard di freschezza e qualità imposti, la loro vendita è stata infatti vietata dal DL Sicurezza. L’articolo 18 [1] del decreto legge, compara il cannabidiolo con THC sotto i limiti di legge italiani ed europei a uno stupefacente, mettendolo di fatto fuorilegge. La misura colpisce l’intera filiera delle infiorescenze, anche se contenenti bassi livelli di THC, vietando coltivazione, lavorazione, distribuzione, commercio, trasporto, invio, e consegna di tutti i prodotti, includendo estratti, resine e oli derivati dai fiori.
In questo momento, il clima dei lavoratori nel settore della canapa non è dei migliori, e il DL Sicurezza ha ridotto «la propensione agli investimenti», ci spiega Beppe Croce, Presidente di Federcanapa. La categoria, tuttavia, continua a lavorare, in attesa dell’esito dei diversi appelli presso la Corte Costituzionale contro il DL Sicurezza. Anche le procure, ci spiega Munno, stanno attendendo la pronuncia della Consulta. A parte qualche caso sporadico nel sud Italia, come a Benevento e Caserta, pare che le procure italiane stiano evitando di muoversi contro le aziende agricole del settore, per timore che l’impianto legislativo che giustificherebbe un loro eventuale intervento frani su sé stesso. La situazione di stallo non è comunque gradita dai lavoratori, che continuano a operare nell’incertezza, costretti ad assumersi il rischio di vedere crollare la propria azienda da un giorno all’altro.