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Resort, startup e pulizia etnica: pubblicato il piano criminale per la Gaza del futuro

Il documento denominato Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation Trust (GREAT Trust), propone la completa trasformazione della Striscia di Gaza in un hub turistico e tecnologico di lusso. Il piano è stato elaborato da alcuni degli stessi israeliani che hanno creato e avviato la controversa Gaza [1]Humanitarian Foundation [1] (GHF), sostenuta da Stati Uniti e Israele, mentre la pianificazione finanziaria è stata curata da un gruppo che all’epoca lavorava per il Boston Consulting Group. L’immaginario proposto dal documento è quello di una Gaza proiettata verso un futuro scintillante, con skyline ispirati a Dubai, distretti digitali hi-tech, centri congressuali, parchi urbani e resort balneari destinati a un turismo globale. La devastazione attuale viene cancellata e sostituita con una vetrina di modernità e investimenti. In realtà, leggendo con attenzione le 38 pagine del documento, si scopre che la sua premessa fondamentale è il trasferimento “volontario” di circa due milioni di palestinesi presentata come scelta opzionale, ma che nei fatti equivale a una deportazione soft, resa possibile dall’uso di incentivi economici in un contesto di devastazione totale. Il progetto GREAT Trust è un’operazione di ingegneria demografica travestita da ricostruzione. La sua logica non è quella della rinascita, ma della sostituzione: i palestinesi vengono spinti a lasciare la loro terra sotto la pressione di incentivi che mascherano un contesto coercitivo, mentre Gaza viene ridisegnata come parco giochi per investitori, startup e turisti.

La “Trump Gaza Riviera”

Il presidente Donald Trump e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu in un incontro alla Casa Bianca. Luglio 2025

Non è chiaro se la proposta dettagliata e completa del GREAT Trust sia ciò che l’amministrazione Trump ha in mente, ma stando a fonti interpellate dal Washington Post [2], che ha reso pubblico il piano, alcuni elementi importanti della pianificazione sarebbero stati specificamente progettati per realizzare la visione del presidente americano di una “Riviera del Medio Oriente”. Dopo la promessa della Casa Bianca [3] di possedere e “riqualificare” Gaza, spingendosi oltre il linguaggio diplomatico e rivendicando un ruolo diretto di appropriazione e trasformazione del territorio, il 26 febbraio, Trump pubblicò sul suo social Truth un video [4] generato dall’intelligenza artificiale che divenne virale: in quella clip, battezzata “Trump Gaza”, appariva una versione surreale della Striscia completamente reinventata come resort di lusso sul modello di Dubai. Le immagini mostravano Trump e Netanyahu rilassati in costume da bagno, una statua dorata del presidente stagliata sul lungomare, Elon Musk che ballava mentre dal cielo piovevano banconote, e figure grottesche di uomini barbuti che danzavano in abiti da spiaggia. Quella rappresentazione, concepita inizialmente come satira, finì per assumere il valore di manifesto politico e fornì di fatto una cornice visiva e narrativa al progetto. Da quel momento, un gruppo di imprenditori israeliani cominciò a lavorare per tradurre la suggestione in un piano concreto. A guidare l’iniziativa furono Michael Eisenberg, imprenditore israelo-americano noto nel settore del venture capital, e Liran Tancman, ex ufficiale dell’intelligence militare israeliana, i quali mobilitarono reti economiche e politiche per dare sostanza alla “Riviera di Gaza”. Entro la primavera, la gestione passò anche a un team del Boston Consulting Group con sede a Washington, che nel frattempo era stato incaricato dal principale appaltatore statunitense di predisporre il programma umanitario per la distribuzione alimentare sotto l’egida della Gaza Humanitarian Foundation (GHF). A quel punto, il BCG cominciò a lavorare a modelli finanziari dettagliati e a scenari urbanistici, formalizzando la proposta sotto il nome di GREAT Trust e trasformando l’utopia mediatica di un video virale in un progetto economico-politico dal respiro internazionale.

Le proposte nel dettaglio

Il piano prospettato per il GREAT Trust sembra realizzare sulla carta la visione futuristica di Trump. Il documento immagina che Gaza, una volta disarmata e privata di Hamas, passi inizialmente sotto la custodia bilaterale di Stati Uniti e Israele, per poi evolvere verso una forma di amministrazione fiduciaria multilaterale. L’architettura finanziaria si basa su un investimento pubblico compreso tra 70 e 100 miliardi di dollari, finalizzato ad attirare ulteriori 35-65 miliardi di capitale privato. L’obiettivo dichiarato è la creazione di resort di lusso sul modello di Dubai, smart city integrate con sistemi digitali avanzati, distretti industriali ad alta tecnologia e infrastrutture idriche e logistiche estese fino al Sinai. Il tutto viene presentato come parte integrante della cornice regionale degli Accordi di Abramo e del corridoio economico IMEC, volto a ridisegnare le connessioni tra Mediterraneo e Golfo. A chi possiede un terreno, il trust offrirebbe un token digitale in cambio del diritto di riqualificare la propria proprietà, da utilizzare per finanziare una nuova vita altrove o eventualmente riscattabile per un appartamento in una delle sei-otto nuove “smart-cities, basate sull’intelligenza artificiale”, che saranno costruite sulle macerie di Gaza. Ogni palestinese che scegliesse di andarsene riceverebbe un pagamento in contanti di 5.000 dollari e sussidi per coprire quattro anni di affitto altrove, oltre a un anno di cibo.

Dal punto di vista operativo, il piano prevede un meccanismo di land trust basato sulla tokenizzazione immobiliare: i proprietari palestinesi dovrebbero trasferire i diritti sulle loro terre ricevendo in cambio token digitali, che costituirebbero una sorta di indennizzo investibile e, teoricamente, utilizzabile per accedere alle nuove proprietà nella futura Gaza “ricostruita”. Il documento calcola che in dieci anni l’economia locale potrebbe crescere di undici volte rispetto ai livelli del 2022, con un prodotto interno lordo che passerebbe da 2,7 miliardi a oltre 30 miliardi di dollari, la creazione di un milione di posti di lavoro diretti e indiretti, la costruzione di 13.000 nuovi posti letto ospedalieri e un tasso di scolarizzazione infantile superiore all’85%. Si parla di un valore complessivo della nuova Gaza di oltre 300 miliardi di dollari e di ritorni economici stimati in 385 miliardi per gli investitori, a fronte dei 100 miliardi inizialmente immessi. Il documento non dimentica i vantaggi geopolitici: consolidare la posizione degli Stati Uniti nel Mediterraneo orientale, rafforzare l’architettura abramitica e garantire accesso privilegiato alle immense risorse di terre rare del Golfo, stimate in 1,3 trilioni di dollari.

La finta volontarietà del trasferimento

L’ex Primo Ministro israeliano Yitzhak Rabin, Bill Clinton e l’ex Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese Yasser Arafat durante la firma degli Accordi di Oslo, il 13 settembre 1993.

Il Washington Post evidenzia che “i promotori del trust sostengono che, in base alla dottrina consuetudinaria del diritto internazionale dell’uti possidetis juris e ai limiti all’autonomia palestinese previsti dagli accordi di Oslo del 1993, Israele ha il controllo amministrativo sui territori occupati e il potere di cederli”. Il documento non fa alcun riferimento a un’eventuale istituzione di uno Stato palestinese, ma parla della posizione di Gaza “al crocevia” di quella che diventerà una regione “filoamericana”, che darà agli Stati Uniti accesso alle risorse energetiche e ai minerali essenziali. Israele manterrebbe “i diritti generali per soddisfare le proprie esigenze di sicurezza” durante il primo anno del piano, mentre quasi tutta la sicurezza interna sarebbe assicurata da non meglio specificati “TCN” (cittadini di Paesi terzi) e da contractor militari privati occidentali. Il loro ruolo si ridurrebbe gradualmente nell’arco di un decennio, con l’avvento di una “polizia locale” addestrata. L’allontanamento dei palestinesi da Gaza – attraverso la persuasione, la compensazione o la forza – è stato oggetto di dibattito nella politica israeliana fin da quando Gaza fu strappata al controllo egiziano e occupata da Israele nella guerra del 1967. Uno degli aspetti più controversi del piano riguarda, infatti, la cosiddetta “volontarietà” del trasferimento tramite incentivi. Parlare di scelta libera in un contesto di distruzione generalizzata, fame e assenza di prospettive equivale a una distorsione semantica: quando l’unica alternativa al trasferimento è sopravvivere tra macerie e carestia, l’opzione diventa un obbligo mascherato. Non a caso, la stessa Corte Penale Internazionale ha stabilito che in un ambiente coattivo il consenso è giuridicamente nullo.

Pulizia etnica mascherata

Il piano GREAT Trust, pur presentandosi come progetto di sviluppo e di ricostruzione, rientra perfettamente nella definizione di “pulizia etnica mascherata”. La promessa di resort e startup non cancella la realtà di una spoliazione pianificata. Non è necessario l’uso di violenza diretta per configurare tale reato: basta un dispositivo sistematico che modifichi deliberatamente la composizione demografica di un territorio. Qui l’obiettivo è chiaro: svuotare Gaza della sua popolazione originaria, ricollocandola altrove con il pretesto della “volontarietà” e sostituendola con una nuova realtà urbana e turistica destinata a investitori, turisti e aziende internazionali. Dal punto di vista giuridico, il trasferimento di massa della popolazione occupata costituisce un crimine di guerra secondo l’articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra [5] e un crimine contro l’umanità ai sensi dello Statuto di Roma [6] della Corte Penale Internazionale.

L’aspetto “criminale” del GREAT Trust non è solo un giudizio morale o politico, ma prettamente giuridico. Il progetto contrasta con i princìpi inderogabili del diritto internazionale, a partire dal divieto di acquisizione territoriale e dal diritto dei popoli all’autodeterminazione sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. La struttura di governance prevista, una custodia esterna di lungo periodo senza alcun riconoscimento della sovranità palestinese, è una forma aggiornata di amministrazione coloniale. La trasformazione dei diritti fondamentali in strumenti finanziari, attraverso il meccanismo della tokenizzazione immobiliare, rivela una mercificazione radicale del legame con la terra, che viene svuotato di significato storico e politico per essere ridotto a un asset speculativo e potrebbe rappresentare, inoltre, un pericoloso precedente replicabile su larga scala. In questo quadro, il piano non è solo illegittimo, ma configurabile come crimine internazionale, sia per i trasferimenti forzati, sia per l’imposizione di una governance esterna su un territorio occupato.

Intanto, mentre infuria la polemica per il piano per il futuro di Gaza, la più grande associazione accademica al mondo di studiosi del genocidio ha approvato una risoluzione in cui si afferma che sono stati soddisfatti i criteri legali per stabilire che Israele sta commettendo un genocidio a Gaza. Lo ha dichiarato la presidente dell’International Association of Genocide Scholars (Iags [7]) Mary O’Brien, docente di diritto internazionale alla University of Western Australia. L’86% di coloro che hanno votato tra i 500 membri dello IAGS ha appoggiato la risoluzione, che dichiara che «le politiche e le azioni di Israele a Gaza» soddisfano la definizione legale stabilita nell’articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio del 1948.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.