Sembra lo scenario di un romanzo di fantascienza, eppure è realtà: in Cina [1]è in fase avanzata di sviluppo il primo robot umanoide dotato di utero artificiale, capace – almeno secondo i suoi ideatori – di portare avanti una gravidanza dall’embrione fino al parto. Il progetto [2], guidato dal dottor Zhang Qifeng, fondatore della start-up Kaiwa Technology [3] di Guangzhou, è stato presentato come «in fase matura» e, secondo indiscrezioni, un prototipo potrebbe essere messo in commercio già dal prossimo anno al prezzo di circa 100.000 yuan (poco più di 12.000 euro). L’umanoide, stando alle dichiarazioni ufficiali, sarebbe in grado di replicare l’intero processo riproduttivo, dall’impianto dell’embrione alla nascita, nutrendo e monitorando il feto grazie a un sistema di liquido amniotico sintetico, sensori e un cordone artificiale collegato all’addome. Non sono stati ancora forniti dettagli specifici su come l’ovulo e lo spermatozoo verrebbero fecondati e impiantati nell’utero artificiale.
Il primo a immaginare la possibilità di una riproduzione in una sorta di utero artificiale fu il biologo britannico John B. Haldane che, nel 1924, ne preconizzò il perfezionamento tecnologico intorno al 2070, divenendo anche fonte di ispirazione per Brave new world (Il mondo nuovo) di Aldous Huxley. Nel romanzo distopico dello scrittore britannico, la riproduzione umana è completamente esternalizzata e controllata da apparati tecnocratici e le nuove generazioni vengono selezionate, suddivise in caste e fabbricate in uteri artificiali come in una catena di montaggio tecnologica.
La Cina vive un boom di infertilità: secondo uno studio pubblicato su The Lancet, la percentuale di coppie incapaci di avere figli è salita dal 12% nel 2007 al 18% nel 2020. In questo contesto, la proposta di un “robot madre” appare, a qualcuno, come una risposta concreta a un problema. Zhang Qifeng e il suo team presentano, infatti, l’utero artificiale come un’alternativa alla maternità surrogata, spesso vietata od osteggiata per ragioni etiche e giuridiche. Il robot umanoide sarebbe un surrogato tecnologico, dunque, più economico e meno problematico dal punto di vista legale rispetto alla gestazione per altri.
Esperimenti simili non sono nuovi. Nel 2002, un gruppo di ricercatori al Centro di Medicina Riproduttiva del Weill Cornell Medical College di New York, sotto la direzione della dottoressa Hung-ching Liu, realizzò il primo utero umano artificiale [4], riuscendo così a far crescere un embrione al suo interno per sette giorni. I biologi sono riusciti a far annidare embrioni umani non all’interno di un utero isolato, ma su un supporto artificiale biodegradabile, tappezzato da un compatto strato di cellule endometriali, cellule specializzate della parte più interna dell’utero.
In Giappone il dottor Yoshinori Kuwabara della Juntendo University lavora, invece, da anni alla realizzazione di un utero artificiale per ottenere l’incubazione fetale extrauterina: nel suo embrio-incubatore, riesce a preservare lo sviluppo di un cucciolo di capra per tre settimane.
Nell’aprile del 2017, su Nature Communications [5] era stato annunciato che un gruppo di ricercatori americani dell’Istituto di ricerca del Children’s Hospital di Philadelphia aveva costruito un utero artificiale, chiamato «biobag» in cui erano stati fatti crescere con successo alcuni agnellini nati prematuri.
L’annuncio ha scatenato un’ondata di reazioni contrastanti: tra l’entusiasmo per l’innovazione e i timori di natura etica, filosofica e sociale. Diversi bioeticisti hanno sollevato il dubbio che l’ectogenesi possa aprire la strada alla commercializzazione radicale della nascita, dove la vita stessa diventa un prodotto di laboratorio, acquistabile a catalogo e perfezionabile a richiesta (il che richiama lo spettro dell’eugenetica [6]). I committenti potrebbero avere la possibilità di ingegnerizzare geneticamente l’embrione prima di impiantarlo nell’utero artificiale, modificandone così il DNA per creare la vita su misura.
Il progetto cinese apre, inoltre, una questione cruciale: cosa significa privare un bambino del legame biologico e psichico con la madre? La gestazione non è solo nutrimento: i primi otto giorni di dialogo cellulare tra embrione e madre – il cosiddetto cross talk – sono determinanti per lo sviluppo. A ciò si aggiunge la dimensione invisibile, eppure potentissima, del rapporto emotivo e psichico che accompagna i nove mesi di gravidanza e che continua anche dopo il parto. Quali conseguenze psicologiche ed esistenziali potrà avere nascere dentro una macchina, senza alcuna connessione con un corpo materno?
Secondo i sostenitori dell’ectogenesi, invece, la possibilità di sostituire la gravidanza con un utero artificiale potrebbe segnare un passo avanti per la salute e l’emancipazione femminile: eliminare i rischi della gestazione, ridurre la mortalità materna e le complicazioni, liberare le donne dal “peso biologico” del parto. Alcune bioeticiste, come Anna Smajdor [7] ed Evie Kendall [8] hanno definito la gravidanza una sorta di “malattia” e vedono nell’utero artificiale la possibilità di svincolare il corpo femminile dalle catene biologiche. Secondo il biologo e filosofo Henri Atlan [7] – convinto che anche la clonazione umana diventerà un modo di procreazione come un altro – l’ectogenesi diventerà una realtà che segnerà «la possibilità di una evoluzione verso una vera eguaglianza dei sessi».
Questa visione nasconde un rovescio inquietante: la trasformazione della maternità in un evento puramente tecnologico, la creazione di bambini fuori da ogni legame corporeo, la riduzione della vita a oggetto da progettare. È lo scenario denunciato dal biologo Jacques Testart [6], pioniere della fecondazione assistita, che ha parlato di un «eugenismo democratico» e ha denunciato il rischio di una «clonazione sociale»: una produzione di individui selezionati, apparentemente perfetti, ma privati di unicità.
La domanda, allora, non è se sia possibile sviluppare l’ectogenesi – la tecnologia, se non oggi, domani lo permetterà – ma se sia giusto, etico e desiderabile per la collettività. Siamo pronti a un mondo in cui i figli vengano progettati, migliorati eugeneticamente e partoriti dalle macchine? Dietro la retorica del progresso e della libertà, si cela una posta in gioco “antropologica” senza precedenti. Se Huxley aveva intuito che la tecnica avrebbe trasformato la vita in un prodotto standardizzato e manipolabile dal potere, oggi rischiamo di viverne la realizzazione concreta.