La macchina di Elena, la nostra accompagnatrice, scivola veloce lungo l’autostrada deserta. «Devi renderti conto che quello che stiamo per fare è molto importante». Mariela, dal lato passeggero, guarda dritta davanti a sé, tenendo stretta la maniglia della porta. Fuori dal finestrino, le monocolture di pini ed eucalipti, l’oro verde del Cile, sfilano veloci al lato della strada. Un po’ più in là, il profilo imponente delle pale eoliche si staglia contro il cielo azzurrino dell’orizzonte, dove tra poco sorgerà l’alba. Ovunque si volga lo sguardo, il paesaggio restituisce le ferite di una terra ricca di risorse che il colonizzatore ha fatto proprie, calpestando tutto ciò che c’era prima. La distruzione che ha lasciato intorno a sé l’ha chiamata “progresso”. So che Mariela ha paura, anche se il suo volto non lo dà a vedere. Se i carabineros ci fermano, lei sarà la prima a essere arrestata. Anche senza motivo. Per lei non sarebbe la prima volta e nemmeno l’ultima. Accade a centinaia di persone come lei, in questa parte di Cile. È il colore della sua pelle, è il retaggio che porta con sé. È l’essere mapuche. «La persona che stiamo per incontrare è molto importante, devi essere consapevole di questo. E normalmente non accetta visite di questo tipo». Tradotto: di bianchi, europei. «Però nessuno meglio di lui ha la visione d’insieme. Nessuno meglio di lui ti sa raccontare l’impatto che le grandi aziende come ENEL hanno sul nostro popolo, sulle nostre vite, e quanto costa la lotta per la terra». Mapuche. Mapu, la terra. Che, il popolo, la gente. Due concetti fusi nella stessa parola, l’esistenza dell’uno impossibile senza l’altro. La macchina di Elena prosegue silenziosa verso ovest. I primi raggi del sole fanno brillare l’asfalto umido dalla notte. Ancora un centinaio di chilometri e saremo a destinazione.
Colonialismi vecchi e nuovi

dispersione di carbone [foto di Valeria Casolaro]
Il Cile è una striscia di terra di appena 180 km di larghezza, che si estende in lunghezza per oltre 4300. Il suo territorio attraversa almeno quattro climi diversi, cui corrispondono una varietà di ecosistemi e ricchezze naturali sterminate – venti, corsi d’acqua, foreste, riserve di litio e terre rare, tra gli altri. Per questo, da secoli, è una preda appetitosa per governi e aziende estere, in particolare quelle energetiche, che qui hanno potuto diversificare la produzione arricchendosi a non finire. E tra queste, nessuna ha saputo farlo meglio dell’italiana ENEL.
Il gruppo è presente nel Paese con ENEL Chile S.A., che controlla un gruppo di compagnie operanti nel settore dell’energia elettrica cilena. Si tratta di ENEL Green Power Chile [1], ENEL Generación Chile, ENEL Distribución Chile ed ENEL X. James Lee Stancampiano, ex CEO di ENEL Green Power, ha definito [2] il Paese «il laboratorio della transizione»: qui è stata realizzata la prima centrale solare industriale di grandi dimensioni, installato il primo pannello fotovoltaico bifacciale, costruita la prima centrale geotermica dell’America Latina, portate a termine le prime sperimentazioni nel campo dell’energia mareomotrice. In questa «palestra dell’innovazione» dalle uova d’oro, ENEL ha costruito un piccolo impero: qui, l’azienda ha infatti la più alta capacità di produzione di energia nel campo delle rinnovabili al mondo, dopo Italia, Spagna e Nordamerica – 7,3 GW, l’11% della produzione globale, il 37% di quella prodotta in tutto il Sudamerica.
Per facilitare le operazioni ad aziende come ENEL, nel 2025 è entrato in vigore l’Advanced Framework Agreement (AFA), accordo sottoscritto dal Cile con l’Unione Europea per rafforzare la cooperazione politica, economica e istituzionale e incentrato sullo sviluppo dell’energia verde e sostenibile. Grazie a esso, il 99% delle esportazioni UE sarà esente da dazi (con potenziale aumento delle esportazioni fino a 4,5 miliardi di euro) e l’Unione potrà avere più facile accesso alle materie prime e ai combustibili necessari per la transizione – come litio, rame e idrogeno. Inoltre, l’AFA garantisce parità di trattamento agli investitori cileni ed europei e migliora l’accesso delle imprese UE agli appalti pubblici cileni. Contestualmente, sarà sviluppata la cooperazione nell’ambito della lotta al terrorismo: un elemento non da poco conto, considerato che la Camera dei Deputati cilena sta spingendo per l’approvazione di una risoluzione [3]che identifica come terroriste le organizzazioni che si battono contro la colonizzazione dei territori da parte dello Stato e delle aziende straniere. Si tratta, in particolare, della Coordinadora Arauco-Malleco (CAM), della Resistencia Mapuche Malleco (RMM), della Resistencia Mapuche Lafkenche (RML) e della Weichán Auka Mapu (WAM), tutte organizzazioni del popolo mapuche, nativo del Cile, che rappresenta circa il 10% della popolazione totale. Fino a ora, il presidente Boric non ha dato seguito alla richiesta. Tuttavia, il documento porta come prima firma quella di Johannes Kaiser, favorito alle presidenziali del prossimo novembre. La lotta del popolo mapuche costituisce la principale spina nel fianco per il governo cileno e per le aziende che operano nelle regioni della Macrozona Sur, ricche di risorse.

Le critiche all’AFA sono già tante: l’eurodeputata Ana Miranda, per esempio, ha sottolineato [5]la mancanza di trasparenza nelle negoziazioni, dove il Cile non ha potuto dire pressoché nulla. L’AFA, sostiene, dà il via libera «alle multinazionali e a un modello agroesportatore ed estrattivista che promuove l’aumento delle estrazioni di materiali strategici, come il rame e il litio», permettendo allo stesso tempo «lo sfruttamento dei territori e della biodiversità». In questo contesto, «non sono stati consultati i popoli originari», in particolare «il popolo mapuche, il più messo a rischio». Numerose realtà ambientaliste, tra le quali Friends of the Earth Europe [6] (la filiale europea della più grande rete ambientalista di base del mondo), hanno parlato di «sfruttamento ecologico» che avrà implicazioni «sui diritti umani e sull’ambiente», in quanto «favorisce modalità di produzione e di scambio insostenibili e ingiuste, volte a rafforzare i termini di commercio neocoloniali».
Il concetto di transizione energetica non implica quelli di giustizia ecologica, decolonizzazione, giustizia sociale. Costituisce per lo più un passaggio da un sistema economico predatorio a un altro, al quale sopravvivono le aziende con la maggiore capacità di adattamento.
Le ceneri tossiche del passato

ENEL fortifica la propria presenza in Cile nel 2009 [7], quando acquisisce un ulteriore 25% (in aggiunta al 67% [8] già posseduto) del capitale di ENDESA S.A., principale impresa del settore elettrico spagnolo, arrivando a detenere il 92% del gruppo e acquisendo quindi pieno controllo su di esso. ENDESA S.A. controllava allora, attraverso la sussidiaria Enersis, ENDESA Chile [9](principale azienda energetica del Paese), la quale possedeva numerosi progetti energetici nel Paese. Tra questi vi erano le centrali idroelettriche Pangue, Ralco e Palmucho (tutte e tre situate a poca distanza sul fiume Bío Bío e in funzione rispettivamente dal 1996, 2004 e 2008), situate in una zona ad alto conflitto con le popolazioni locali, e la termoelettrica a carbone Bocamina I (in funzione dal 1970 fino al 2020), situata nella città di Coronel. Nel 2012 entrò in funzione anche la seconda termoelettrica a carbone di ENDESA, Bocamina II, la cui attività fu interrotta nel 2022, nell’ambito del piano di decarbonizzazione del Paese. Dopo una serie di riaggiustamenti societari, nel 2016 ENDESA Chile cambiò definitivamente nome in ENEL Generación Chile. Il controllo di ENEL sulle attività di ENDESA Chile, tuttavia, è effettivo già dal 2009 – ma una notevole influenza la esercitava già dal 2007, quando divenne socia di maggioranza di ENDESA S.A. al 67%.
La cittadina di Coronel, 127 mila abitanti, è oggi una delle cinque “zone di sacrificio” del Cile – dove l’alta concentrazione di industrie ha compromesso la qualità della vita e l’equilibrio ambientale, senza peraltro generare un vantaggio economico adeguato per i residenti. Ci troviamo a circa 500 km a sud di Santiago, nella provincia di Concepción, regione di Bío Bío. Qui, la presenza [10]di 3 termoelettriche a poche centinaia di metri dalle zone abitate, 7 industrie del settore ittico e un parco industriale con oltre un centinaio di aziende ha saturato completamente l’ambiente di sostanze contaminanti. Uno studio realizzato dalla Universidad Catolica de la Santisima Concepción ha rilevato come il suolo del Porto di Coronel, nelle immediate vicinanze delle Bocamina di ENEL, sia fortemente contaminato, tanto a livello superficiale quanto in profondità, da metalli pesanti quali rame, piombo e vanadio, presentando anche livelli moderati di contaminazione da nichel e arsenico, altamente dannosi per l’organismo – l’arsenico, per esempio, può causare problematiche gastrointestinali, cardiache, renali e neurologiche. «Non siamo a conoscenza di questo studio» ha commentato l’azienda a una nostra domanda in merito, ma «durante gli anni di attività delle unità Bocamina 1 e 2, entrambe sono state gestite secondo meccanismi ambientali che rispettavano i più alti standard tecnologici dell’epoca, costantemente aggiornati nel tempo». Alla domanda riguardo eventuali opere di bonifica dell’area, ENEL ha evitato di fornire risposte dirette, asserendo che «le analisi effettuate negli ultimi anni riguardo alla presenza di metalli pesanti, condotte dall’autorità sanitaria locale, non sono mai state conclusive circa le cause, la persistenza, i livelli di tossicità o le caratteristiche principali di questi metalli. Inoltre, i campioni finora pubblicati non indicano livelli differenti da quelli registrati nel resto del Paese e, in alcuni casi, si attestano persino al di sotto della media nazionale». Va sottolineato che numerosi studi hanno confermato l’alto potenziale inquinante di questo tipo di centrali, proprio a causa del deposito di metalli pesanti nell’ambiente circostante, con conseguenze sulla salute degli ecosistemi e delle persone.
La lotta socioambientale dei residenti contro le termoelettriche dura da almeno due decenni. Nel 2018 [11], un’inchiesta riconobbe il ruolo delle Bocamina nella contaminazione atmosferica e idrica della baia: nell’ambito di quest’ultima, tre dirigenti di ENEL furono accusati di diffusione di agenti chimici dannosi per l’ambiente e le persone e di immissione di sostanze nocive in mare, ma l’azienda trovò il modo di accordarsi con la procura, impegnandosi a ridurre le emissioni del 30%, ed evitò il rinvio a giudizio. Nell’ambito dello stesso processo, si determinò che il deposito scoperto delle ceneri di scarto, situato a 500 metri dal centro abitato, stava contaminando le falde acquifere e il mare, mentre il vento stava trasportando le ceneri tossiche verso la popolazione. Le analisi condotte dimostrarono anche che altissime concentrazioni di arsenico, cadmio e zinco, insieme a cromo, rame, alluminio, manganese, vanadio, cobalto e ferro furono trovate nei controsoffitti delle scuole e delle case – tutti materiali correlati a gravi malattie. Inoltre, nel 2016, iniziarono ad emergere i primi casi di bambini contaminati con metalli pesanti. Nonostante ciò, la Commissione investigativa della Camera, nel 2021 [12], ha riscontrato che non fossero ancora state adottate misure sufficienti per prevenire o trattare le patologie rilevate. Nello stesso anno, è stato avviato un primo studio sulla correlazione tra contaminazione del suolo da parte delle termoelettriche dalla Università Cattolica di Concepción e finanziato dal Ministero della Salute, ma ad oggi i risultati non sembra siano stati resi noti.

Nel 2019, l’azienda cominciò a ricoprire la discarica di ceneri con l’intento di farne un bosco nativo [14], ma per i residenti si tratta solamente di un tentativo di nascondere sotto la terra qualcosa che ha già causato una contaminazione grave e che, a loro parere, potrebbe essere ancora oggi fonte di contaminazione. È opinione diffusa tra la popolazione che lo Stato nasconda i dati ufficiali sulla contaminazione. «È inconcepibile che una impresa si sia arricchita così tanto lucrando sulla salute dei nostri figli» mi dice Flavia, madre di uno dei primi 18 bambini sui quali fu scoperta la contaminazione. Lo Stato, sottolinea, ha avuto un ruolo decisivo nel permettere «che la sua popolazione fosse contaminata per le azioni di una impresa che non è nemmeno di qui». A Coronel, dice, la situazione è «apocalittica», ma per la maggior parte dei residenti non c’è alternativa. «Questa è una cittadina molto, molto povera. Io a fatica ho ottenuto qui una casa popolare, non posso lasciarla per andare da un’altra parte». Le misure di compensazione dell’azienda, secondo quanto riferisce Flavia, sono poca cosa: qualche risarcimento per gli abitanti le cui abitazioni sorgevano sul terreno dove è stata costruita la termoelettrica, il ricollocamento di alcune strutture che si trovavano troppo vicine alla centrale in zone più lontane (come la scuola Rosa Medel, nella quale numerosi studenti risultarono contaminati da metalli pesanti, originariamente situata a meno di 500 metri dalla Bocamina).
La contaminazione, però, è sotto gli occhi di tutti: «l’acqua che beviamo è contaminata, il pesce che mangiamo è contaminato, la terra stessa è contaminata. Da anni al mattino le macchine sono coperte da un sottile strato di polvere, che sono le emissioni delle centrali». «Spesso quando apri il rubinetto l’acqua che esce è gialla e puzza. Chiaro che non è possibile berla», mi racconta Pepe, attivista di lunga data.
Abbiamo chiesto a ENEL se, considerata la prossimità delle centrali con il centro urbano e le denunce da parte dei residenti di malattie sviluppate a seguito della contaminazione del territorio, fosse stato avviato un monitoraggio dell’impatto delle attività della Bocamina sull’ambiente e se i dati fossero consultabili. L’azienda ha risposto che le operazioni di deposito/discarica delle ceneri sono terminate con la chiusura delle centrali e che «l’attività operativa delle due unità e del deposito è stata regolata dalle autorizzazioni ambientali pertinenti, che includevano misure di tutela e monitoraggio ambientale sia da parte dell’azienda che delle autorità competenti». In aggiunta a ciò, «i rapporti di monitoraggio ambientale previsti nelle rispettive Risoluzioni di Valutazione Ambientale (RCA) sono stati pienamente eseguiti durante la fase operativa della centrale Bocamina e pubblicati attraverso le piattaforme gestite dalle autorità ambientali. Attualmente, le infrastrutture industriali relative alle unità 1 e 2 sono state messe in sicurezza. Le attività di smantellamento e chiusura della centrale verranno svolte in conformità a tutta la normativa vigente e con le necessarie autorizzazioni ambientali. L’attuale RCA della centrale non prevede obblighi di monitoraggio ambientale nella fase post-chiusura, poiché non è stato rilevato un impatto ambientale persistente». Il 2025 segna cinque anni dalla chiusura della prima centrale, tre dalla chiusura della seconda. Eppure, lo smantellamento non sembra essere in programma a breve.
Transizione ecologica, non etica
Coronel rappresenta (per il momento) il passato. Ora il Paese punta alla transizione energetica, all’energia verde e le aziende si adattano. Replicando i medesimi comportamenti predatori che hanno caratterizzato il guadagno fossile. In questo contesto, la lotta del popolo mapuche contro l’invasore europeo prima e lo Stato cileno dopo ha dato per secoli filo da torcere a chiunque tentasse di colonizzare le loro terre ancestrali. «Io preferisco il termine “pre-esistenti”» mi ha detto una volta Mariela, mentre mangiavamo una empanada sulla spiaggia di Penco, durante uno dei nostri primi incontri, «è più corretto, perché sottolinea che noi eravamo qui prima. Prima dell’arrivo degli spagnoli, prima della creazione dello Stato cileno, prima che fossimo sterminati da un popolo invasore e oppressore».
Quando la macchina di Elena si ferma all’esterno del cancello di legno, ho un sussulto. Ci troviamo nella comunità mapuche tradizionale di Temucuicui, nel cuore dell’Araucania. Oltre il cancello di legno c’è la casa del lonko Victor Queipul, la massima autorità politica e spirituale della comunità. In genere, l’ingresso di estranei in questa comunità non è permesso – tanto più se europei. Organizzare questo incontro ha richiesto settimane di paziente attesa e preparazione, tanto mentale quanto logistica. Superare la barriera di diffidenza delle comunità non è semplice. Così come non sarebbe stato semplice giustificare, alle decine di carabineros che pattugliano le strade, perché ci stiamo recando nella comunità che è il cuore di quella che lo Stato definisce «lotta violenta», che ha spinto il governo a istituire a partire dal 2021 lo stato di emergenza [15] e dove negli anni sono fallite diverse operazioni di polizia. È a Temucuicui che nasce la RMM, autrice di attacchi incendiari proprio contro mezzi ENEL e altre aziende e di vari altri atti di «violenza politica» contro lo Stato. Nel 2022 [16], il tentativo della ministra dell’Interno Izkia Siches di visitare la comunità è stato bruscamente interrotto quando il suo convoglio ha incontrato un veicolo bruciato a bloccare la strada. Colpi di arma da fuoco sparati in aria e un cartello che riportava che «finché ci saranno prigionieri politici non ci sarà dialogo» hanno fatto chiaramente capire che il governo cileno non è il benvenuto da queste parti.

dipingere gli esterni della centrale con murales, per «integrare maggiormente nel tessuto urbano
una installazione industriale» [foto di Valeria Casolaro]
Nell’area compresa tra Collipulli, Angol, Ercilla e Victoria, nel mezzo della quale si trova Temucuicui, sarebbero almeno 354 le turbine eoliche installate. 22 di queste si trovano nel parco eolico La Cabaña, di proprietà di ENEL Green Power, alle quali vanno aggiunte quelle del progetto Renaico II, suddiviso nei parchi eolici di Las Viñas e Puelche, dove sono presenti [17] un totale di 32 turbine. La maggior parte di questi progetti, denunciano collettivi e organizzazioni, avrebbero ricevuto il via libera dallo Stato senza che vi sia stata alcuna approvazione o consultazione delle comunità indigene o della cittadinanza, le quali si devono tuttavia fare carico delle conseguenze negative – come la chiusura dei cammini rurali, la presenza costante di guardie di sicurezza, il rumore delle pale in funzione e così via. Nel caso del parco di Las Viñas, per esempio, i residenti hanno chiesto lo stop al progetto per via delle conseguenze che poteva avere su qualità dell’aria, rumore, luminosità (per via dell’ombra proiettata dalle pale, alte centinaia di metri), suolo, fauna, flora e paesaggio, oltre che costringere al reinsediamento le persone e interferire con i luoghi di svolgimento delle cerimonie sacre. Il Tribunale Ambientale di Valdivia ha tuttavia rigettato le loro richieste, negando che esistessero prove in merito a tutte le rimostranze avanzate. «Non c’è alcuna giustificazione legale per applicare un Processo di Consultazione Indigena [ovvero per includere gli indigeni nel procedimento decisionale, ndr]», ha scritto [18] il Tribunale.
«La povertà del popolo mapuche è iniziata quando lo Stato cileno ha cominciato a toglierci le terre». Il tono del lonko Queipul è grave, il volto corrucciato. «Quello che fa ENEL con i suoi progetti, come tutte le grandi aziende che operano in maniera simile, è dire “Non vi arriva l’acqua? Mettete una firma qui e ve la facciamo arrivare”. Promettono alla gente di fare le strade e di fare arrivare l’energia elettrica, insomma necessità basiche delle quali dovrebbe incaricarsi lo Stato, non l’azienda. In questo modo possono dire di aver fatto la consultazione con la popolazione. In realtà, si infilano nel territorio mapuche con l’inganno». Il lonko non nega che vi siano alcuni rappresentanti delle comunità disposti a scendere a compromessi, ma si tratta di persone alle quali la “coperta da lonko” (abito tradizionale) è stata data dallo Stato. «Sono persone che si accordano con la politica, che non hanno quel ruolo per tradizione, quindi non sanno compiere appieno gli interessi delle comunità».
Per chi si trova delle turbine a pochi metri da casa, la vita è impossibile, riferisce il lonko. «Le turbine sono enormi, la terra vibra costantemente. Anche per gli uccelli la vita è impossibile. Tutti gli animali che vivono in quel luogo devono andarsene e tutti i mapuche anche». Le persone che vivono vicino alle pale riferiscono che la sensazione sia quella di convivere con un terremoto continuo. «A Renaico la gente sta iniziando ad ammalarsi nella testa, per via del rumore. Questa gente è povera, non ha le risorse per farsi curare. E non è un problema solo dei mapuche, anche per il resto dei cileni che abitano queste zone. Prima lo Stato ci impoverisce, poi le aziende distruggono quello che resta. Alla fine, queste sono terre usurpate al nostro popolo dai coloni, non importa che fine fa la gente povera, loro installano le loro pale eoliche e non gli importa nulla del resto». A peggiorare il quadro, denuncia il lonko, vi è il fatto che il 60% dell’energia prodotta dalle turbine non è destinata alle famiglie o agli utenti, ma alle miniere. «Lo stesso succede con le dighe», spiega il lonko. Abbiamo chiesto a ENEL se fosse a conoscenza della percentuale di energia elettrica prodotta nella Macrozona Sur che veniva destinata alle comunità, ma ci è stato risposto che il processo è regolato direttamente dal Coordinador Eléctrico Nacional, ente autonomo e indipendente dalle aziende produttrici, e che «le imprese di generazione non hanno accesso al dettaglio della distribuzione dell’energia né possono influenzarla».
Dei 63 impianti green esistenti in Cile e di proprietà di ENEL Green Power, una dozzina si trovano in Araucania e producono oltre un terzo dell’energia rinnovabile di tutto il Paese. La quasi totalità si trova in contesti di forte conflitto sociale e opposizione delle popolazioni locali – come nel caso delle centrali idroelettriche Pangue, Ralco e Palmucho. Nel corso di una chiacchierata in un caffè di Concepción, Javier Arroyo Olea, ricercatore dell’Osservatorio Latinoamericano dei Conflitti Ambientali (OLCA), mi spiega che le continue inondazioni causate dall’innalzamento del fiume per effetto dell’attività delle dighe continuano a provocare problemi alle popolazioni locali, per lo più mapuche pewenche. Queste ultime accusano infatti l’azienda di non essersi dotata di un adeguato sistema di allarme per avvisare la popolazione delle piene del Bío Bío, che causerebbero spesso la distruzione delle abitazioni e un rischio di morte per gli abitanti, oltre che l’annegamento degli animali e l’allagamento dei raccolti. Dal canto suo, l’azienda ha sempre negato [19]ogni responsabilità, sostenendo che le centrali abbiano invece un effetto ammortizzante sulle piene.
Dal 2019 l’associazione Malen Leubü denuncia a ENEL «profonda preoccupazione e malessere» per la gestione delle tre dighe, che si trovano a monte della comunità Callqui, specialmente per quanto riguarda il controllo del livello del fiume. Da anni, infatti, ENEL e il Comune di Alto Bío Bío starebbero scaricando l’una sull’altra la responsabilità della realizzazione di allarmi e piani di emergenza. La mancanza di chiarezza da entrambe le parti e di misure di prevenzione efficaci, sottolinea Malen Leubü, mette a rischio la vita della popolazione, che negli anni ha osservato «un aumento nella frequenza e nella portata degli innalzamenti, che ha conseguenze non solo sulla sicurezza delle persone, ma anche sulle attività sportive e ricreative». La situazione è grave al punto da essere stata esposta «di fronte alla sede ONU di Ginevra», fatto che «sottolinea la gravità della situazione e la necessità urgente di attenzione».
A fronte dell’alto livello di conflitto sociale che permea molte delle zone della Macrozona Sur nelle quali sono presenti suoi progetti, l’azienda ritiene tuttavia che le proprie politiche rispettino pienamente i diritti umani e l’ambiente, prevedendo una partecipazione pubblica e un’adeguata tutela delle comunità indigene durante il processo di valutazione ambientale.
La lotta rimane
Sulla strada del ritorno, Mariela è più rilassata. Quando siamo abbastanza lontane dalla zona di Temucuicui, ci fermiamo in un autogrill. Fino ad ora abbiamo visto una sola camionetta di carabineros, appostata in una piazzola lungo l’autostrada. «Non vogliono spaventare troppo i turisti» mi dice Elena, facendomi l’occhiolino. Sorrido distrattamente, la testa distante, immersa nei pensieri. Mariela mi osserva. Sul suo volto è scritto il significato delle parole del lonko Queipul: «Non c’è nessun’altra organizzazione in Cile che lotta per un diritto come la popolazione mapuche. La nostra lotta non è temporanea. Rimane. Non esistono alternative». «E ora?» le chiedo, mentre cerco di mettere in fila i pensieri. Mi sorride, ha l’aria stanca. «Ora sta a te. Ma prima, andiamo a prenderci una bella birra».