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Media Freedom Act: entra in vigore la legge europea che tutela (e controlla) il giornalismo

L’8 agosto 2025 è scoccata l’ora X: in tutti gli Stati membri dell’UE è entrato in vigore il nuovo regolamento sulla libertà dei media (European Media Freedom Act, EMFA), approvato dal Parlamento europeo nell’aprile 2024, con cui Bruxelles [1] intende «garantire il pluralismo e l’indipendenza dell’informazione» e «limitare le interferenze e le pressioni politiche ed economiche». Sulla carta, si tratta di un manifesto di princìpi condivisibili; nella realtà, ci troviamo dinanzi a un regolamento a tratti fumoso, dove diversi articoli della norma aprono le porte a possibili nuovi strumenti di centralizzazione normativa e controllo politico, aprendo la strada a nuove forme di censura e omologazione dell’informazione e riducendo, paradossalmente, proprio quelle libertà che l’EMFA promette di difendere. 

Mentre i media mainstream mirano a esaltare i punti di forza del regolamento, i passaggi controversi che emergono dalla lettura della norma [2] sono diversi, a partire dall’applicazione centralizzata del concetto di “libertà di stampa” e l’imposizione di “norme comuni” (art. 1), che potrebbero tradursi in un’omologazione delle prassi editoriali. La definizione di cosa siano i “servizi di media” e di chi rientra nella categoria di “fornitore” (art. 2 e 3) è ampia e potenzialmente estendibile anche soggetti che non si percepiscono come “media” in senso tradizionale, rischiando di far ricadere nel perimetro dell’EMFA anche siti indipendenti o blogger professionali.

Uno dei pilastri del regolamento è l’obbligo per tutte le testate di pubblicare in registri pubblici (art. 27-29) i dati sulla proprietà, sui finanziamenti e sulle entrate pubblicitarie, comprese quelle provenienti da governi stranieri. Da una parte, si tratta di tutelare il cittadino, permettendogli di “sapere chi c’è dietro” a un giornale o a un’emittente. Tuttavia la norma si preoccupa di tracciare eventuali finanziatori pubblici ma non di monitorare quelli privati, non aiutando a fare luce sugli interessi privati che possono orientare i media e danneggiare il pluralismo.

Uno dei punti più dibattuti in questi giorni, riguarda l’articolo 5 che prevede criteri uniformi per la nomina e la revoca dei vertici dei media di servizio pubblico, oltre a vincolare i finanziamenti alla stabilità e alla prevedibilità pluriennale. In teoria, un passo avanti per sottrarli all’influenza dei governi. In pratica, il nuovo quadro potrebbe diventare un cavallo di Troia: la Commissione europea e l’European Board for Media Services (art. 36-41) avranno il potere di monitorare e giudicare l’indipendenza delle governance nazionali. Chi stabilirà, però, che cosa sia un’informazione “equilibrata”? Chi non sposa le linee narrative dominanti, potrà essere accusato di “mancato pluralismo”? In questo modo, si rischia di trasformare un principio di autonomia in un meccanismo di condizionamento politico sovranazionale, in modo da contestare governi democraticamente eletti se la loro linea editoriale non coincide con quella considerata “pluralista” da Bruxelles. 

Cuore pulsante dell’EMFA sarà, infatti, l’European Board for Media Services, organo comunitario incaricato di vigilare sull’applicazione della legge. Composto da rappresentanti delle autorità nazionali di regolamentazione, agirà in stretto raccordo con la Commissione europea. Il problema è la concentrazione del potere decisionale in un organismo sovranazionale: un unico centro avrà la possibilità di influire sulle linee editoriali e sulla sopravvivenza economica delle testate, fornendo “pareri non vincolanti” che, però, influenzeranno direttamente l’accesso ai fondi e le procedure sanzionatorie.

L’articolo 26, sotto la veste di uno strumento di tutela e trasparenza, concentra in un organo sovranazionale la capacità di “certificare” lo stato della libertà di stampa nei singoli Paesi, istituendo un meccanismo di monitoraggio permanente sulle condizioni della libertà e del pluralismo dei media. Senza garanzie di indipendenza reale e pluralità metodologica, il sistema rischia di trasformarsi da strumento di protezione in leva di condizionamento politico-mediatico, capace di colpire selettivamente governi e media non allineati alla narrativa dominante. 

Il regolamento (art. 17-21) vieta arresti, perquisizioni, spyware e sorveglianza per costringere un giornalista a rivelare le proprie fonti. Tuttavia, introduce eccezioni [3] per “motivi imperativi di interesse generale” e “sicurezza nazionale”. Questa clausola elastica, già vista in altre normative UE, minaccia di svuotare la protezione stessa: basterà invocare la “sicurezza nazionale” per autorizzare intercettazioni, monitoraggi mirati e l’uso di software intrusivi come Pegasus (art. 22-23). È proprio questa clausola, volutamente vaga, ad aver sollevato le critiche [4] di decine di organizzazioni internazionali [5]

In Italia, l’entrata in vigore dell’EMFA riaccende il dibattito sulla governance della RAI [6], ancora lottizzata, esposta a procedure di infrazione per il mancato adeguamento alle regole di nomina trasparenti richieste dal regolamento europeo. Il governo Meloni è alle prese con due nodi sensibili da sciogliere: la riforma della RAI e il caso Paragon [7] sul presunto uso di spyware nei confronti dei giornalisti. . 

Il testo introduce anche un meccanismo per impedire che le piattaforme online “molto grandi” rimuovano arbitrariamente contenuti provenienti da media indipendenti (art. 16 e 30). Le piattaforme dovranno avvisare e dare 24 ore di tempo per rispondere prima della rimozione. Tuttavia, lo stesso regolamento stabilisce che le piattaforme distinguano tra “fonti indipendenti” e “non indipendenti”. Chi decide i criteri? Se l’autorità di riferimento è europea, il pericolo è che media critici verso le politiche UE vengano classificati come “non indipendenti” e penalizzati. In più, le decisioni algoritmiche restano in gran parte opache. Un sistema simile, se non gestito con estrema trasparenza, potrebbe legittimare una censura preventiva mascherata da protezione.

Il Media Freedom Act è strutturato in modo da presentare garanzie condivisibili e si presenta come una carta dei diritti per il giornalismo europeo, ma tra le pieghe di articoli e disposizioni si annidano strumenti che potrebbero essere usati per il fine opposto: centralizzare la gestione del pluralismo, definire dall’alto cosa sia una “informazione affidabile” e marginalizzare le voci critiche. Il rischio più concreto non è una censura diretta e brutale, ma un lento processo di condizionamento economico e normativo, che ridurrebbe il “vero” pluralismo al pluralismo “approvato” da Bruxelles. La sfida sarà evitare che una legge nata per proteggere la libertà di stampa diventi l’ennesima architettura di sorveglianza e di conformismo mediatico.

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Enrica Perucchietti

Laureata con lode in Filosofia, vive e lavora a Torino come giornalista, scrittrice ed editor. Collabora con diverse testate e canali di informazione indipendente. È autrice di numerosi saggi di successo. Per L’Indipendente cura la rubrica Anti fakenews.