Mentre la pressione dal basso ha spinto gli altri Paesi a compiere i primi timidi – e tardivi – passi per un riconoscimento politico della Palestina, Meloni ha deciso di alzare la cornetta e chiamare Netanyahu, per «insistere sulla necessità di porre immediatamente fine alle ostilità». Per la premier riconoscere la Palestina sarebbe infatti «controproducente» perché «i tempi non sono maturi»; meglio parlare al telefono con il proprio omologo, usando parole forti che non comportino alcuna concreta presa di posizione contro il genocidio a Gaza. Nel corso della telefonata, Meloni non ha fatto accenno a possibili contromisure da parte dell’Italia, né fornito alcuna dichiarazione di intenti; si è limitata, piuttosto, ad avanzare richieste da titolo di giornale, che non risulta chiaro come intenderebbe far sì che vengano rispettate.
La telefonata tra Meloni e Netanyahu si è svolta la sera di mercoledì 30 luglio e il contenuto della conversazione è stato reso noto da un comunicato governativo [1]. Durante la telefonata, Meloni si è limitata a ripetere le solite parole dal tono duro e dai risvolti poco tangibili: la situazione a Gaza è «insostenibile ed ingiustificabile», l’entrata di aiuti per la popolazione civile costituisce una «urgenza indifferibile», i bombardamenti vanno fermati «immediatamente»; come, fuor di parole, Meloni intenda indurre Israele a interrompere i massacri e garantire che i cittadini palestinesi non muoiano di fame, non risulta chiaro. La telefonata di Meloni a Netanyahu arriva a margine della conferenza franco-saudita per la Palestina, boicottata direttamente dagli Stati Uniti. Al suo termine, i Paesi partecipanti – Italia compresa – hanno firmato un appello [2] per promuovere un processo di pace a fasi che, così come le formule usate da Meloni, non presenta alcun elemento che suggerisca come i firmatari intendano far sì che Israele accetti le condizioni stabilite. Parallelamente, 15 Paesi hanno ratificato un’ulteriore carta [3] in cui si impegnano a riconoscere lo Stato di Palestina, misura che Francia, Regno Unito e Canada hanno annunciato che prenderanno a settembre, in occasione dell’avvio del prossimo ciclo dell’Assemblea Generale dell’ONU.
Se gli Stati hanno deciso di riconoscere uno Stato palestinese, è solo grazie alla pressione proveniente dal basso. Tale iniziativa arriva in ritardo e rischia di risultare insufficiente se non accompagnata da misure concrete per fermare il genocidio a Gaza; rappresenta tuttavia un primo passo per aumentare la pressione internazionale su Tel Aviv, in un momento in cui ai governi non è più concesso ignorare ciò che succede a Gaza e in Cisgiordania. Nonostante ciò, l’Italia non ha firmato il documento perché, secondo Meloni, i tempi per il riconoscimento della Palestina «non sono ancora maturi». Di misure alternative [4] alle sole parole, però, l’Italia ne avrebbe a disposizione diverse altre. Meloni potrebbe infatti muoversi per sospendere i trattati con Israele, sanzionare i ministri israeliani, i coloni o le entità che collaborano con lo Stato ebraico, oppure unirsi alla causa per genocidio intentata dal Sudafrica; azioni che non solo non ha mai fatto, ma che ha ostacolato in ogni sede. La maggioranza ha infatti boicottato i tentativi di interrompere i memorandum d’intesa con Israele, ha votato contro mozioni che chiedevano l’introduzione di sanzioni e, in generale, si è sempre limitata a vaghe formule di «sostegno alla “soluzione dei due Stati”», senza mai scendere nel concreto. Sin dall’escalation del 7 ottobre, l’Italia ha infatti appoggiato non troppo velatamente la linea statunitense di sostegno incondizionato allo Stato ebraico, senza mai alzare la voce se non quando costretta. La telefonata di ieri non fa che confermare questo approccio.