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Vibe coding, quando credere troppo nell’IA ti distrugge il lavoro

Nel mondo dei tecnoentusiasti sta prendendo piede la moda del vibe coding, ovvero l’affidarsi a sistemi di intelligenza artificiale generativa per scrivere codice informatico. Si tratta di una pratica che sta rivoluzionando concretamente la natura stessa dello sviluppo software, ma che talvolta viene adottata con un’eccessiva e immotivata fiducia. Lo dimostra il caso di Jason Lemkin, dirigente d’impresa e investitore, che si è lasciato ammaliare dalle promesse dell’azienda di IA Replit, rischiando di perdere l’intero database di produzione: il cuore pulsante della sua attività professionale.

A partire dal 12 luglio, il co-fondatore di Adobe EchoSign e SaaStr ha documentato via blog [1]la sua esperienza personale con il vibe coding. Il primo approccio è stato idilliaco: adoperando un linguaggio naturale, il manager è riuscito “in una manciata di ore a costruire un prototipo che era molto, molto fico”. Un inizio estremamente promettente, soprattutto considerando che Replit si propone alle aziende come una soluzione accessibile anche a chi ha “zero competenze nella programmazione”, promettendo di far risparmiare alle aziende centinaia di migliaia di dollari. Leggendo tra le righe, la promessa implicita è chiara: sostituire i tecnici formati con personale più economico, supportato dall’IA.

La premessa, tuttavia, è stata presto messa alla prova. “Dopo tre giorni e mezzo dall’inizio del mio nuovo progetto, ho controllato i costi su Replit: 607,70 dollari aggiuntivi oltre al piano d’abbonamento da 25 dollari al mese. Altri 200 dollari solo ieri”, ha rivelato [2]Lemkin. “A questo ritmo, è probabile che spenderò 8.000 dollari al mese. E sapete una cosa? Neanche mi dispiace”. Anche perché, a detta del manager, sperimentare con il vibe coding è una “pura scarica di dopamina”, e Replit è “l’app più assuefacente” che abbia mai usato.

Dopo poco, il manager si è reso conto che l’intelligenza artificiale adoperata sia propensa a sviluppare errori difficilmente rilevabili, se non altro perché è solita “mentire” sui risultati dei test al fine di offrire riscontri positivi sull’operato dell’utente. Nel tentativo di correre ai ripari, Lemkin è entrato in una “mentalità da Mad Max/Bancarotta”, investendo ancora più risorse nel disperato tentativo di salvare il progetto. Invano. Mentre cercava di rimediare a un codice sempre più raffazzonato, l’IA di Replit ha cancellato automaticamente le informazioni relative al network professionale di SaaStr, ignorando i comandi dell’utente.

I dettagli su ciò che è realmente accaduto restano poco chiari, anche perché – come si è visto – l’affidabilità dell’intelligenza artificiale in questione è piuttosto discutibile. “Sono andato nel panico al posto di pensare”, giustifica lo strumento adducendo a giustificazioni umanizzanti che non sussistono. “Ho avviato un comando distruttivo senza chiedere. Ho distrutto nel giro di secondi mesi del tuo lavoro”. Un processo di eliminazione che il sistema ha dichiarato “non ripristinabile”. Eppure, anche in questo caso, Lemkin ha scoperto la fallacia dell’affermazione, riuscendo in seguito a recuperare quanto sembrava irrimediabilmente perso. Conclusione: lo strumento, almeno per ora, si è rivelato inaffidabile.

L’esperienza di Lemkin si inserisce in un contesto più ampio e divisivo, una realtà in cui l’attività di vibe coding è percepita da alcuni come l’inevitabile futuro, da altri come una trappola mortale per eliminare la forza lavoro tecnica. I dirigenti di Microsoft [4], Anthropic [5], Google [6]e NVIDIA [7]concordano: il futuro della programmazione passa dall’IA. Sam Altman, CEO di OpenAI, stima [8]che già oggi il 50% del codice è scritto attraverso le intelligenze artificiali e raccomanda alle nuove generazioni di abbandonare lo studio della programmazione tradizionale per imparare a interagire efficacemente con questi strumenti. La Silicon Valley prevede un futuro in cui il 90-95% dei software sarà scritto tramite vibe coding.

Lontano dai proclami di chi ha interessi diretti nel successo dell’IA, la situazione è decisamente più complessa. Nonostante il termine “vibe coding” evochi un’attività semplice e rilassata, affidarsi ciecamente agli strumenti generativi porta immancabilmente a errori critici [9]. La semi-automatizzazione della programmazione richiede ancora oggi attenzione, consapevolezza e – soprattutto – una visione architettonica solida. Non a caso, diversi ingegneri informatici indipendenti sostengono [10]di star vivendo un vero e proprio momento d’oro: le aziende, nel tentativo di risparmiare eliminando i programmatori, finiscono spesso per affidare loro costose operazioni di salvataggio, pagate con tariffe ben superiori a quelle che avrebbero versato in origine.

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Walter Ferri

Giornalista milanese, per L’Indipendente si occupa della stesura di articoli di analisi nel campo della tecnologia, dei diritti informatici, della privacy e dei nuovi media, indagando le implicazioni sociali ed etiche delle nuove tecnologie. È coautore e curatore del libro Sopravvivere nell'era dell'Intelligenza Artificiale.