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Dopo il Dalai Lama ci sarà un altro Dalai Lama, e la Cina non l’ha presa bene

Il Dalai Lama XIV ha dichiarato ufficialmente che ci sarà un suo successore. Mercoledì 2 luglio, attraverso un atteso discorso annunciato nei giorni scorsi, Tenzin Gyatso ha confermato che il Tibet continuerà ad aver un capo spirituale anche dopo la sua morte. E non era affatto scontato. A pochi giorni dal suo novantesimo compleanno, Gyatso ha levato ogni dubbio sul futuro del capostipite del buddismo tibetano e ha scelto di affrontare apertamente le ingerenze cinesi sulla questione, in una decisione che – lungi dall’essere solo religiosa – ha tutte le carte in regola per aumentare le tensioni tra Cina e Occidente su più fronti. 

Il Dalai Lama, figura principale della religione buddhista tibetana e figura di spicco del territorio, viene eletto dal Gaden Phodrang Trust (istituzione da lui stesso fondata nel 2011), dopo le consultazioni con i capi spirituali delle scuole buddiste tibetane e i Protettori del Dharma. Come confermato dal Dalai Lama XIV, l’elezione si celebrerà solo dopo la sua morte, in seguito alla ricerca dell’incarnazione dell’attuale capo spirituale nel corpo di un bambino. 

Se l’iter tradizionale prevede lo svolgimento delle elezioni secondo la suddetta procedura, in quest’occasione il profondo cambiamento del contesto geopolitico dell’area negli ultimi settant’anni complica drasticamente la situazione. Difatti Tenzin Gyatso, l’attuale Dalai Lama, è stato l’ultimo capo spirituale riconosciuto e insediato prima dello scoppio della guerra civile cinese e dell’ascesa al potere del partito comunista. Intronizzato nel 1940, a soli cinque anni, nel territorio tibetano ancora isolato e indipendente, Gyatso assistette all’invasione cinese del Tibet del 1950 e tentò per due anni di aprire il dialogo con le istituzioni maoiste, senza successo. È nel 1959 però che la tensione scoppiò definitivamente, scatenando lo scontro tra le forze militari maoiste e i rivoltosi del movimento di resistenza tibetano, addestrato dalla CIA nel contesto dell’operazione ST Circus. La repressione delle ribellioni da parte dei militari cinesi, spinsero il Dalai Lama e 190.000 tibetani alla fuga verso l’India, dove, con l’aiuto della CIA e l’approvazione del presidente indiano Jawaharlar Nehru, si installò definitivamente a Dharamsala, dando vita al Governo tibetano in esilio. 

Il Dalai Lama leva così il velo sul futuro dell’istituzione religiosa che rappresenta. Resta aperto il dubbio sulle conseguenze di una dichiarazione che la Cina considera una vera e propria ingerenza. Da Pechino la risposta non si è fatta attendere: «le rincarnazioni del Dalai Lama, del Panchen Lama e delle altre grandi figure buddhiste devono essere scelte dal sorteggio attraverso l’urna d’oro e dovrà essere approvato dal governo centrale» ha dichiarato il ministro per gli affari esteri Mao Ning, facendo riferimento alla tradizione introdotta dalla dinastia Qing nel 1793 e utilizzata fino al 1877. Difatti, i due Dalai Lama eletti dopo il 1877 furono scelti, con il permesso del governo centrale cinese, attraverso il metodo della manifestazione del defunto nel nuovo corpo. È grazie al metodo introdotto in epoca Qing che il Partito comunista cinese (PCC) confuta oggi le affermazioni di Tenzin Gyatso. 

Inoltre, l’estrazione dall’urna d’oro interessa anche le figure dei Panchen lama, seconda entità più importante della religione e figura principale nella ricerca del nuovo Dalai Lama. Intorno a questo ruolo, trent’anni fa si produsse un contenzioso tra il PCC e il governo tibetano: nel 1995 Tenzin Gyatso scelse come successore del Panchen Lama, deceduto nel 1989, Gedhun Choekyi Nyima un bambino nato nella contea di Lhari, situata nella regione autonoma del Tibet sotto il controllo cinese. Il 14 maggio, solo pochi giorni dopo l’annuncio del Dalai Lama, le autorità cinesi arrestarono il futuro Panchen Lama e incaricarono Sengchen Lobsang Gyaltsen, ostile alle istituzioni tibetane e vicino al partito, di trovarne un altro. La scelta ricadde su Gyancain Norbu, che da allora rappresenta il lignaggio dei Panchen Lama, risiede abitualmente a Pechino e solo pochi giorni fa è stato ricevuto dal presidente Xi Jinping.

Il risultato di questa dicotomia istituzionale sarà con estrema probabilità l’istituzione di due Dalai Lama, uno eletto alla morte di Tenzin Gyatso e ricercato tra i territori «del mondo libero», come lui stesso ha ammesso nel suo ultimo libro, e l’altro nominato attraverso il rito dell’urna e con il consenso del PCC. Questa questione alimenta una tensione geopolitica considerevole, già fortemente compromessa dal fragile equilibrio al di là dello stretto di Taiwan. Se da un lato i parametri di questo stallo sono di carattere religioso, dall’altro la successione accende un faro sul controllo di un territorio chiave sia da un punto di vista orografico ed economico, per la fonte idrica che contiene, sia politico, in quanto confine conteso con l’altra potenza economica dell’area, l’India.

Vanno inoltre tenute in considerazione le relazioni che il Dalai Lama ha stretto nel corso dei decenni con l’Occidente. Se fin da subito la CIA e gli Stati Uniti hanno finanziato il Tibet in chiave anticomunista, anche se, come recriminato dallo stesso Gyatso nel 1991, senza tenere a cuore la causa tibetana, l’intero asse atlantico si è schierato più volte dalla parte del Tibet, stringendo relazioni dirette con l’attuale Dalai Lama. Entrambe le forze in gioco sono coscienti dell’importanza dell’area: secondo Reuters gli Stati Uniti avrebbero ristabilito nei giorni scorsi gli aiuti economici inizialmente sospesi dall’amministrazione Trump, mentre la Cina da anni ha avviato un processo di investimenti nelle infrastrutture, nel turismo e nelle risorse naturale nella regione autonoma del Tibet. 

Il processo di successione annunciato da Tenzin Gyatso non si risolverà rapidamente, ma in un contesto geopolitico instabile come quello odierno, ha tutte le carte in regola per aumentare le tensioni tra Cina e Occidente su più fronti. Ottantacinque anni dopo l’ultima elezione, il prossimo Dalai Lama scelto dalla comunità tibetana in esilio sarà il primo a non aver mai messo piede in Tibet.

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Armando Negro

Laureato in Lingue e Letterature straniere, specializzato in didattiche innovative e contesti indipendentisti. Corrispondente da Barcellona, per L’Indipendente si occupa di politica spagnola, lotte sociali e questioni indipendentiste.