L’organizzazione palestinese I giovani di Sumud, che si batte per i diritti del suo popolo, ha lanciato un appello [1] denunciando come Israele abbia autorizzato la demolizione dei 12 villaggi palestinesi di Masafer Yatta. La pulizia etnica in corso da decenni in questa parte della Cisgiordania rischia così di giungere a una svolta, che determinerà l’espulsione delle quasi 3000 persone che abitano [2] questi villaggi.
«Il 18 giugno 2025, il Consiglio Superiore di Pianificazione di Israele ha emesso una direttiva per la Firing Zone 918 a tutti i suoi sottocomitati, autorizzando il rifiuto delle obiezioni alla demolizione e le procedure di pianificazione», riporta l’appello dei giovani di Sumud. «Questo avviso, che rimane non divulgato al pubblico, afferma che l’addestramento militare è ora richiesto in tutta la Firing Zone 918». Ciò implicherà il diniego di tutte le richieste di costruzione avanzate nell’area dai palestinesi, così come la dismissione di tutte le procedure legali aperte dalle comunità contro gli ordini di demolizione delle proprie case.
L’area di Masafer Yatta, come spiega a L’Indipendente M., attivista di ISM (International Solidarity Movement [3], il movimento internazionale che in Cisgiordania sta al fianco dei palestinesi nelle zone più a rischio di espulsioni e violenze), è stata proclamata Firing Zone 918 negli anni ‘80, dall’allora ministro nonché futuro primo ministro Ariel Sharon. Fu sua l’idea di rendere l’area un poligono militare per limitare «l’espansione dei residenti arabi di quelle colline». Lo stato ebraico da 40 anni usa la scusa delle esercitazioni militari per sgomberare e allontanare le comunità palestinesi che ci vivono, favorendo l’insediamento di coloni israeliani. «Ma con questo nuovo decreto militare stanno praticamente dando il via libera a demolire in massa Massafer Yatta», dichiara M.
Se prima il territorio era diviso in “wet zone” e “dry zone”, ossia in zone dove si svolgevano esercitazioni militari e altre dove i palestinesi potevano stare, ora tutto sarà considerato terreno di gioco dei militari israeliani. Di fatto, mandando via o rendendo impossibile la vita a chi vi abita, per costringerlo ad andarsene. «Questa mossa equivale alla pulizia etnica delle comunità indigene Masafer, tagliandole fuori dalle loro terre private, dalle zone di pascolo e dai mezzi di sostentamento di base,» denunciano ancora gli attivisti di Sumud. «Questo sta accadendo sotto la copertura della guerra con l’Iran, in palese disprezzo del giusto processo e dello stato di diritto. Lo Stato sta usando false affermazioni di “sicurezza” per giustificare la distruzione e lo sfollamento,» scrivono in un appello [4] anche gli attivisti israeliani di The Village group, da anni presenti sul territorio.
Violenze all’ordine del giorno
Militari e coloni sono alleati nell’obbiettivo di allontanare le comunità palestinesi che da sempre vivono in quelle montagne. Gli attacchi dei coloni sono sistematici, e comprendono distruzione delle infrastrutture, furto di bestiame, violenze fisiche, minacce, incendi ai coltivi e ai mezzi di lavoro. Attacchi che sono addirittura aumentati dal 7 di ottobre, data la chiara politica del governo di Tel Aviv che spinge verso la colonizzazione totale della Cisgiordania e assicura tacitamente l’impunità a coloro che l’agiscono. Il braccio armato in divisa d’Israele, invece, si occupa delle demolizioni forzate delle abitazioni e di impedire che nuove case vengano costruite.
Molte famiglie sono costrette a vivere nelle grotte, come mostra anche il film-documentario No Other Land, vincitore quest’anno del premio Oscar, nel quale si racconta la realtà delle comunità palestinesi che vivono sulle montagne a sud di al-Khalil (Hebron). In poche immagini, il film descrive uno dei tanti esempi di violenza quotidiana nell’area: un soldato spara a un giovane ragazzo disarmato a cui avevano appena demolito la casa, rendendolo paralizzato dal collo in giù. Costretto a vivere in una grotta, data l’impossibilità di ricostruire nella zona “militare” per i palestinesi, muore a 26 anni dopo anni di sofferenze.
Con questa nuova direttiva, gli sgomberi e le demolizioni non faranno che aumentare. Inoltre, denuncia ancora M., «tutti gli outpost israeliani che sono stati creati dal 7 di ottobre – e che sono nelle stesse aree – nessuno li sta toccando e possono rimanere. Quindi, come al solito, la pratica è quella di mandare via la popolazione palestinese e favorire l’espansione delle colonie israeliane». M. racconta l’aumento delle violenze dell’ultimo periodo: «un paio di mesi fa hanno praticamente raso al suolo Khalet a-Dab’e, che è un villaggio proprio in mezzo all’area militare 918. Poi hanno cercato di demolire le tende nella quale si erano trasferiti i cittadini, che adesso vivono nelle cave e nelle grotte. I coloni hanno cercato di stabilire un avamposto, e andavano lì tutti i giorni… a Susya, un paio di mesi fa, l’esercito ha imposto una close military area (“un’area militare chiusa”) che durerà due anni, quando di solito questi sono ordini di 24 ore… anche lì i coloni hanno cercato di mettere un outpost di fronte a una delle case, che per ora è stato sgomberato, ma vanno quotidianamente ad attaccare le abitazioni, a distruggere le cisterne d’acqua, la rete elettrica, le varie infrastrutture. L’altro giorno hanno dato fuoco a una delle case a Susya. La situazione è terrificante. C’è veramente una forte spinta a mandare via le persone da Masafer Yatta».
Il movimento internazionale è oggi in difficoltà, data la forte repressione che anche gli attivisti stanno subendo nella zona. «Due attiviste di ISM [5] sono state deportate poche settimane fa perché gli israeliani non vogliono che nessuno veda e nessuno parli di cosa succede», dice ancora M. «E pochi giorni fa anche due attivisti di Operazione Colomba sono stati detenuti. Chi è interessato a portare solidarietà ai palestinesi qui in Cisgiordania, è benvenuto. Servono volontari» conclude M.
Gli abitanti della zona hanno lanciato un appello internazionale per fermare le operazioni di demolizione e sfollamento. Chiedono attenzione, ma anche l’imposizione di sanzioni o altri meccanismi pertinenti che possano obbligare Israele a smettere di violare il diritto internazionale e fermare la pulizia etnica in Cisgiordania. E mentre a Gaza i massacri non si fermano, in Cisgiordania un’altra piccola Nackba continua. L’appello della popolazione di Masafer Yatta rischia di rimanere solo un altro grido che chiede giustizia lasciato cadere nel nulla.