Il vertice dei leader del G7 si è risolto in una resa incondizionata di fronte alle richieste di Washington: l’imposta minima globale sui profitti delle grandi multinazionali, varata nel 2021 per limitare l’elusione fiscale, verrà applicata a tutti gli Stati membri, ma non alle aziende statunitensi. L’accordo nasce al fine di scongiurare le “revenge tax” promesse da Donald Trump, ovvero le “tasse di vendetta” nei confronti delle aziende che fanno affari con gli USA e che provengono dai Pesi che applicano la global minimum tax. Sebbene l’OCSE abbia evidenziato che, affinché sia effettiva, la scelta dovrà essere ratificata dai 147 Stati che lo compongono, la strada sembra ormai spianata, con i Paesi componenti o partner dell’Alleanza Atlantica sempre più genuflessi ai diktat nordamericani.
I Paesi del G7 — Stati Uniti, Canada, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia e Italia — hanno concordato [1] di escludere le aziende statunitensi dal pagamento della global minimum tax, l’imposta minima del 15 % sui profitti delle grandi multinazionali entrata in vigore lo scorso anno. Questo “side-by-side system” è stato introdotto per evitare l’entrata in vigore della Sezione 899 del disegno di legge fiscale Usa One Big Beautiful Bill Act (OBBBA), la cosiddetta “tassa sulla vendetta” che avrebbe colpito le imprese straniere attive negli Stati Uniti. L’intesa è stata salutata da Scott Bessent, Segretario al Tesoro Usa, come un modo per «garantire maggiore stabilità e certezza al sistema fiscale internazionale in futuro», e riceve il supporto ufficiale del Dipartimento del Tesoro: «Non vediamo l’ora di discutere e sviluppare questa intesa all’interno del Quadro inclusivo», recita [2] un comunicato.
La global minimum tax, frutto di una negoziazione globale sotto l’egida dell’OCSE, mirava [3] in particolare ad arginare lo strapotere fiscale delle grandi aziende multinazionali – soprattutto statunitensi -, l’elusione fiscale e il fenomeno dell’offshoring. Il cancelliere del Regno Unito Rachel Reeves ha affermato sabato che il G7 ha concordato che «c’è ancora molto lavoro da fare per contrastare la pianificazione fiscale aggressiva e l’elusione fiscale e garantire condizioni di parità», aggiungendo che «il contesto più adatto affinché questo lavoro possa svolgersi è senza la prospettiva di una tassazione di ritorsione che incombe su questi colloqui, quindi la rimozione della Sezione 899 è benvenuta».
Ora però, benché il G7 affermi che il nuovo sistema «riconosce le attuali leggi statunitensi in materia di imposta minima», resta da chiarire se e in che modalità questa deroga potrà estendersi al di là dei sette. Il prossimo passaggio spetterà infatti all’OCSE, dove l’intesa dovrà essere ratificata dai 147 Paesi partecipanti all’Inclusive Framework. Mathias Cormann, Segretario Generale dell’organizzazione, ha indicato che la deroga USA rappresenta «un’importante pietra miliare nella cooperazione fiscale internazionale», ma ha avvertito che il successo finale dipenderà dall’adesione dei governi che finora non hanno preso una posizione definitiva. Più cauto Manal Corwin, responsabile della divisione fiscale dell’OCSE, il quale ha evidenziato come la dichiarazione non sia vincolante e che «il G7 da solo non può prendere questa decisione».
La rivendicazione di Trump, che a gennaio aveva escluso unilateralmente gli Stati Uniti dall’intesa del 2021, ha dunque avuto la meglio: le grandi multinazionali Usa continueranno a godere di un trattamento di favore, accentuando lo squilibrio tra Nord e Sud del pianeta e indebolendo la lotta globale contro l’elusione e la concorrenza fiscale sleale. Si tratta, in fin dei conti, dell’ennesima iniziativa con la quale i Paesi alleati si sono dimostrati proni agli Stati Uniti. Ciò è stato plasticamente visibile negli ultimi tempi con gli attacchi all’Iran, mascherati [4] dal punto di vista politico-mediatico come operazioni di «guerra difensiva», così [5] come con l’innalzamento delle spese militari al 5% nei Paesi NATO. Il cui segretario generale Rutte, commentando l’approccio comunicativo del presidente USA in relazione al conflitto in Medio Oriente, si è addirittura spinto a chiamarlo in pubblico «paparino».