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Mafia, la Guardia di Finanza ha sequestrato 50 milioni al “re” del settore ittico

La Guardia di Finanza di Caltanissetta ha eseguito un sequestro da 50 milioni di euro nei confronti di Emanuele Catania, imprenditore gelese storicamente attivo nel settore della pesca e della commercializzazione di prodotti ittici, anche su scala internazionale. I beni sequestrati – immobili, società, conti, pescherecci – sono distribuiti tra Sicilia, Campania, Abruzzo e Nord Africa. L’operazione ha coinvolto 60 militari e rivelato un imponente reticolo societario e familiare. Catania, che è stato condannato definitivamente per associazione mafiosa, essendo stata accertata la sua appartenenza sin dai primi anni ‘90 alla famiglia mafiosa dei Rinzivillo, avrebbe favorito l’infiltrazione dell’organizzazione nell’economia legale, riciclando capitali illeciti e alterando la concorrenza. Un business, quello del controllo del mercato ittico, che da oltre quarant’anni ingrassa le tasche dei mafiosi siciliani.

Le indagini, che hanno coinvolto [1] 45 soggetti tra persone fisiche e giuridiche, si sono concentrate su un’anomala sperequazione tra redditi dichiarati e ricchezza accumulata tra il 1985 e il 2022. I capitali investiti dalla famiglia Catania – sostengono gli investigatori – non risultano giustificabili con fonti lecite e sarebbero frutto delle disponibilità della consorteria mafiosa. Determinanti, per ricostruire i legami tra l’imprenditore e l’organizzazione, sono state le dichiarazioni convergenti di numerosi collaboratori di giustizia. I pentiti hanno infatti confermato che già dagli anni Ottanta Emanuele Catania intratteneva rapporti privilegiati con i vertici del clan Rinzivillo, in particolare con Antonio Rinzivillo, che avrebbe investito i proventi del traffico di droga proprio nelle attività economiche della famiglia Catania, offrendo in cambio protezione e appoggi mafiosi. In particolare, il settore ittico siciliano sarebbe stato “monopolizzato” da Cosa Nostra, che imponeva fornitori, dettava le regole del mercato e operava indisturbata in un sistema privo di reale concorrenza. A Catania veniva affidato il compito di espandere le attività all’estero: un piano che ha portato all’apertura di ramificazioni in Marocco, dove l’imprenditore ha assunto il ruolo di socio e amministratore unico della società “Gastronomia Napoletana”, utilizzata – secondo quanto ricostruito dagli inquirenti – come piattaforma per il commercio internazionale e il riciclaggio di capitali di dubbia provenienza.

Emanuele Catania era stato assolto in primo grado dal Tribunale di Gela – che aveva disposto la restituzione dei beni sequestrati –, per poi essere condannato dalla Corte d’Appello di Caltanissetta il 16 marzo 2022 a 6 anni e 8 mesi di reclusione per associazione mafiosa. La sentenza è stata successivamente confermata dalla Corte di Cassazione, sancendo in via definitiva la responsabilità penale dell’imprenditore. Secondo la Corte, il rapporto tra Catania e il clan mafioso non si fondava solo su connessioni personali, ma su un vero e proprio “patto d’affari” fondato sull’interesse reciproco a consolidare il potere economico e criminale nell’area del Mediterraneo.

Cosa Nostra, come dimostrano [2] i numerosi spunti offerti dalle relazioni della DIA nel corso del tempo, ha tradizionalmente fatto del mercato ittico siciliano una fonte stabile di reddito e influenza, imponendo regole e “tasse” su pescatori e commercianti. Da oltre quarant’anni i clan hanno stretto un “patto” con operatori locali per spartirsi carichi di tonno, pesce spada e novellame. Secondo quanto ha dichiarato il pentito Santo La Causa, ex capo militare della potentissima famiglia dei Santapaola, esisterebbe una regola consolidata secondo cui occorre versare nelle casse di Cosa Nostra «somme variabili in considerazione del quantitativo di pesce che viene pescato». La mafia è progressivamente riuscita a espandere i suoi traffici, entrando nei mercati di Roma e Milano con volumi di migliaia di tonnellate l’anno. «Cosa Nostra – è stato scritto nel 2017 nell’ordinanza dell’operazione “Extra fines” che, ha inferto un duro colpo al clan Rinzivillo – ha praticamente il controllo del mercato ittico siciliano, decidendo chi può inserirvisi e dove potere praticare il commercio. Nei mercati esiste da tempo la regola secondo cui i commercianti di pesce sono costretti a versare, a titolo estorsivo, una quota per ogni carico di pesce che viene prelevato».

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Stefano Baudino

Laureato in Mass Media e Politica, autore di dieci saggi su criminalità mafiosa e terrorismo. Interviene come esperto esterno in scuole e università con un modulo didattico sulla storia di Cosa nostra. Per L’Indipendente scrive di attualità, politica e mafia.