Con 201 voti favorevoli, 117 contrari e 5 astenuti, la Camera ha dato la propria fiducia al DL Sicurezza. Con il voto di oggi, la Camera blinda il testo in vista del voto finale, previsto per venerdì. Se dopo di esso dovesse venire adottato dalla Camera, il provvedimento passerà al Senato, dove dovrebbe essere soggetto alla stessa procedura. La maggior parte delle norme previste dal pacchetto di leggi, infatti, erano state originariamente inserite in un disegno di legge, la cui approvazione è tuttavia stata rallentata a causa di errori formali nella stesura del testo. Per ovviare al problema, il governo ha dunque deciso di emanare un decreto ed evitare i lunghi tempi legislativi. Contestato da ONG, istituzioni internazionali, giuristi e docenti, il DL Sicurezza ruota su due punti focali, da una parte, aumentando la repressione del dissenso, e, dall’altra, fornendo maggiori tutele alle forze dell’ordine.
La discussione sul DL Sicurezza è iniziata ieri, lunedì 26 maggio. Al termine del dibattito di ieri, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi aveva chiesto la fiducia sul «testo delle commissioni riunite identico a quello presentato dal Governo, senza emendamenti e subemendamenti e articoli aggiuntivi». Oggi, a partire dalle 16:20, si è tenuta la prima discussione sul testo e a partire dalle 18 è iniziata la votazione per appello nominale (in cui ogni deputato viene chiamato a fornire la propria dichiarazione di voto). Dando la fiducia, la Camera ha dunque blindato il testo così come presentato dal governo. La discussione sul provvedimento, ha precisato la Vicepresidente della Camera, Anna Ascani, proseguirà durante la notte e nelle giornate di mercoledì, giovedì e venerdì, in vista dell’approvazione finale.
Il DL Sicurezza è stato adottato dal Governo lo scorso 11 aprile. La misura era stata precedentemente approvata dal governo Meloni e assorbe la maggior parte delle norme presenti nell’omonimo disegno di legge, lasciandole pressocché invariate. Il motivo dietro la sostanziale conversione del DDL in DL risiede negli errori di natura formale fatti dal governo nella stesura del testo del disegno di legge: il governo, di preciso, aveva sbagliato a scrivere le date delle coperture finanziarie di diverse leggi, facendole partire dal 2024, anno in cui, tuttavia, il pacchetto di leggi non è riuscito a venire approvato. Piuttosto che seguire il naturale iter di approvazione Meloni ha così deciso di ricorrere a quella che sarebbe, almeno in linea teorica, una misura di carattere emergenziale, prendendo una scorciatoia e saltando il dibattito parlamentare.
Rispetto al pacchetto come originariamente pensato, a mutare sono solo alcuni dei già pochi punti su cui si era concentrata la polemica durante il dibattito politico: madri incinte, accesso alle schede telefoniche per i migranti, obbligo per le istituzioni pubbliche di contribuire coi servizi segreti, e poco altro. L’impianto generale del testo, tuttavia, rimane sempre lo stesso, di natura securitaria e liberticida. Sul fronte dell’inasprimento del codice penale, il DL prevede 14 nuove fattispecie incriminatrici e l’inasprimento delle pene di altri 9 reati. Esso inaugura il reato di “occupazione arbitraria di immobile destinato a domicilio altrui” (che prevede fino a 7 anni di reclusione per tutte le fattispecie già punite con il reato di “occupazione”), quello di blocco stradale (massimo 2 anni di reclusione), quello di rivolta nelle carceri e nei CPR (previsti anche in caso di resistenza passiva). Il decreto, inoltre, conferma le cosiddette “zone rosse [1]” nelle città, potenzia lo strumento del DASPO urbano, e vara una stretta contro chi protesta contro le grandi opere.
Dopo la sua entrata in vigore, in molti si sono mossi per fermare e contestare il DL Sicurezza. Il provvedimento è stato criticato e attaccato da diverse aree della società civile, a partire dai movimenti fino ad arrivare alle associazioni di categoria, e contro di esso sono state portate avanti iniziative politiche e giuridiche. Poco dopo la sua pubblicazione, i relatori ONU [2] hanno criticato il provvedimento, sostenendo che esso «mette a rischio la libertà di espressione», colpendo «in modo sproporzionato gruppi specifici»; i magistrati [3] hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, sulla scia di un’analoga contestazione mossa da due avvocati [4]. A fine aprile, inoltre, 250 giuristi e docenti [5] hanno firmato un appello contro il decreto, reiterando le questioni di legittimità costituzionale.