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L’inganno dei disciplinari: da dove vengono realmente le carni dei salumi IGP

Mortadella di Bologna, ma solo nella fantasia. Bresaola della Valtellina, fatta però con la carne in arrivo da Brasile, Austria, Uruguay e Paraguay. Prosciutti che di italiano hanno soltanto il nome perché l’ingrediente principale, la coscia di suino, viene importata da Austria, Francia, Germania, Olanda e Danimarca, i grandi produttori in Europa di carne di maiale. A volte l’origine delle materie prime è addirittura sconosciuta, per cui possiamo solo supporre una certa provenienza. Questa è la realtà della maggior parte dei salumi in vendita nei supermercati e spacciati come autenticamente italiani, anche se di italiano hanno ben poco. Per spiegare come tutto ciò sia possibile e ammesso per legge, dobbiamo fare un passo indietro e comprendere cosa siano le produzioni IGP. L’Indicazione Geografica Protetta è un marchio di qualità istituito [1]dall’Unione Europea che identifica prodotti agricoli e alimentari con una qualità, reputazione o altre caratteristiche specifiche, direttamente legate al territorio di origine. L’IGP tutela il nome del prodotto e garantisce che almeno una fase del processo produttivo avvenga nella zona geografica designata. Pertanto, in teoria, se parliamo di Mortadella di Bologna IGP, dobbiamo aspettarci che almeno una fase della produzione di questo salume venga effettuata nel capoluogo felsineo, o perlomeno nei dintorni.

Made in Italy, ma non troppo

Sulla confezione di questo prosciutto crudo è visibile la dicitura “prodotto in Italia” accompagnata da una scritta più piccola “con carne origine UE”, ovvero con carne d’importazione proveniente da Paesi della Comunità Europea

I salumi sono uno di quegli alimenti in cui la confusione fra i prodotti italiani realmente tali, fatti con materia prima 100% italiana, e gli altri, è massima. Dai medesimi salumifici, con la stessa marca, escono ad esempio prosciutti fatti con suini nati e allevati in Italia e prosciutti fatti con cosce d’importazione. Esistono naturalmente delle differenze di qualità e sapore nei due prodotti, che per il consumatore medio non sono tuttavia facili da percepire. Spesso, infatti, si associa la qualità del cibo alla marca e all’azienda in sé, senza indagare  sul ventaglio di prodotti. Facciamo un esempio concreto: la confezione di prosciutto crudo Fratelli Beretta al supermercato. Per stessa dichiarazione del produttore, questo proviene da cosce di suino importate da Paesi UE, il che significa che la carne non è di suini nati e allevati in Italia. Tuttavia, sulla confezione del prodotto può comunque apporsi la dicitura «Prodotto in Italia» (o «Made in Italy») affiancata da una immagine del tricolore, visto che l’ultima lavorazione, cioè la stagionatura, è avvenuta in Italia – anche se materia prima e allevamento sono spesso di provenienza estera. 

Fortunatamente, in Italia dal 1° febbraio 2021 è obbligatorio indicare in etichetta l’origine della carne suina utilizzata nella produzione dei salumi. Questa misura, stabilita da un decreto, fornisce al consumatore informazioni chiare sul Paese di nascita, allevamento e macellazione degli animali. L’obbligo non si applica tuttavia ai prodotti con marchio DOP e IGP, ed è proprio con questi prodotti che si genera la confusione massima ed emergono gli aspetti più fuorvianti, se non ingannevoli, per il consumatore.

Mortadella di Bologna IGP

Parliamo di un prodotto simbolo di italianità e regionalità, un salume emiliano amatissimo in tutta Italia, da nord a sud. E se la mortadella bolognese non fosse nemmeno italiana? Le origini [2] di questo prodotto apprezzatissimo risalgono probabilmente all’epoca etrusca e sono da ricercare nei territori di Felsina (antico nome di Bologna), ricchi di querceti che fornivano ghiande saporose ai numerosi maiali locali. Del legame con la città di Bologna si trova testimonianza già nel Quattrocento, quando i Visconti di Milano offrivano volentieri ogni anno un bue grasso alla città, per averne in cambio delle succulente mortadelle. Nel 1661, con il bando emesso dal cardinale Girolamo Farnese, che codificava la produzione di mortadella (uno dei primi esempi di disciplinare, simile a quelli attuali propri delle denominazioni a marchio DOP e IGP), viene ufficialmente riconosciuta l’unicità e l’esclusività del prodotto e della città di Bologna. 

Mortadella Bologna IGP – Il disciplinare indica solo le parti del suino utilizzabili, senza alcun vincolo sull’origine delle carni né sul tipo di allevamento. Dietro l’etichetta italiana, si celano spesso suini provenienti da allevamenti intensivi esteri, in particolare da Germania, Spagna e Olanda.

La Mortadella di Bologna IGP è un prodotto di salumeria appartenente alla categoria degli insaccati cotti, preparato con una miscela di carni di suino. Essendo un prodotto IGP, il processo produttivo deve attenersi a un disciplinare di produzione, cioè a delle regole scritte e ben definite. I disciplinari di produzione per i prodotti DOP e IGP vengono predisposti dai Consorzi di Tutela. Si tratta di enti o associazioni che rappresentano gli interessi dei produttori, operano in un’area geografica ben definita e sono responsabili di decidere le regole di produzione, la qualità, la commercializzazione e la promozione del prodotto. Il Ministero dell’Agricoltura e l’ICQRF (Ispettorato Centrale Qualità e Repressione Frodi) sono incaricati di approvare i disciplinari, garantendo che siano conformi alla normativa italiana ed europea e che tutelino la qualità e la specificità dei prodotti DOP e IGP. Queste stesse autorità vigilano sull’applicazione delle regole del disciplinare, avvalendosi di organismi di controllo e certificazione come CSQA (Certificazione Sicurezza Qualità Agroalimentare) o CCPB (Consorzio per il Controllo dei Prodotti Biologici). L’infrazione di una o più regole dà luogo a reati punibili per legge. 

La fase finale e più importante per l’ottenimento di un marchio DOP o IGP è comunque sempre la registrazione a livello europeo in un apposito registro [3]. Le autorità dello Stato membro devono approvare i disciplinari di produzione, ma è necessario che anche l’UE ritenga ammissibili e valide le domande di registrazione del marchio a livello europeo, in conformità al Regolamento (UE) 2024/1143 [4]. L’ammissibilità si basa però esclusivamente su aspetti burocratici e sulla presentazione della documentazione richiesta dalla UE allo Stato membro. In pratica chi decide, nel merito, sulla istituzione di un marchio DOP e IGP è lo Stato membro, non la UE. 

Chiariti questi aspetti di cornice legale, vale ora la pena di dare un’occhiata da vicino al disciplinare di produzione [5] della Mortadella di Bologna IGP. All’articolo 2 del documento si stabilisce quella che è la «zona di elaborazione» del prodotto – termine che suggerisce che in tale zona avviene soltanto una delle varie fasi di produzione, cioè quella finale di cottura e confezionamento, mentre le fasi di nascita e allevamento dei suini, come anche quelle di macellazione, avvengono in altri luoghi. La zona di elaborazione comprende varie Regioni italiane: Emilia-Romagna, Piemonte, Lombardia, Veneto, provincia di Trento, Toscana, Marche e Lazio. 

All’articolo 3 del documento, intitolato Materie prime, non c’è alcun riferimento all’origine geografica delle materie prime stesse, ovvero delle carni di suino. In particolare, non si fa nessun cenno ai luoghi in cui tali animali nascono, sono allevati e macellati. L’unico elemento che viene illustrato nei dettagli è quanto concerne le parti specifiche del suino che possono essere impiegate nella preparazione della mortadella: «La Mortadella Bologna è costituita da una miscela di carni di suino ottenute da muscolatura striata appartenente alla carcassa». Quindi con «materie prime» si fa riferimento, nel disciplinare, soltanto alle parti dell’animale idonee all’utilizzo, non al luogo d’origine né tantomeno alle modalità di allevamento degli animali (intensivo, stato brado ecc.). Per questo motivo è logico ritenere che le carni della mortadella provengano in larga parte dall’estero, da Paesi forti produttori di suini come Germania, Spagna e Olanda in particolare, e solo in parte da suini allevati in Italia. Alcuni produttori industriali dichiarano esplicitamente l’uso di carni estere in mix con quelle italiane, come ad esempio Fiorucci, che lo scrive sul proprio sito web.

Il Prosciutto di Norcia IGP

Il disciplinare di produzione di questo salume scrive [6]esplicitamente che «non vi è limitazione geografica all’origine dei suini». Questi, cioè, possono arrivare da ogni parte del mondo. Nella stragrande maggioranza dei casi, l’indicazione dell’origine è del tutto assente. E non scriverla equivale a dire che non sussiste alcun vincolo.  

[7]
Dalla tabella emerge che, su diversi prodotti presi in esame solo il lardo di Colonnata e il salame d’oca di Mortara prevedono l’uso di carni 100% italiane. La finocchiona ammette carni sia italiane che estere, mentre per gli altri prodotti l’origine delle carni non è specificata nei disciplinari

Carni estere, nome italiano

Purtroppo, le produzioni IGP si contraddistinguono da sempre per adottare dei disciplinari “furbetti”: questo genere di prodotti, infatti, vengono di solito associati a una determinata zona geografica anche se la materia prima viene dall’altra parte del mondo. È sufficiente che solo una fase della lavorazione avvenga nella zona che dà il nome. Famosi sono i casi della Bresaola della Valtellina IGP, fatta con la carne di Zebù brasiliano, o dello Speck dell’Alto Adige IGP, con cosce provenienti da Germania e Paesi Bassi. La tabella pubblicata nella pagina precedente mostra un elenco abbastanza ampio dei salumi IGP italiani per i quali l’utilizzo di carni estere è comune e talvolta esplicitamente dichiarato dal disciplinare stesso. 

Tra tutte le IGP comprese in questo elenco, sono soltanto 2 quelle che per disciplinare di produzione devono impiegare carni italiane: il Lardo di Colonnata IGP e il Salame d’oca di Mortara IGP. Mentre la Finocchiona IGP prevede l’utilizzo sia di carne di suini italiani di razza Cinta Senese che di carne di suini proveniente dall’estero. In tutti gli altri casi non si richiede l’origine geografica specifica della carne (salvo un paio di casi in cui viene richiesta l’origine UE della carne) ma solo la tipologia (razza) di suino che deve essere impiegata per la produzione del salume.

In conclusione, il marchio IGP fa pensare a un prodotto locale indissolubilmente legato a un determinato territorio. Attribuire una certificazione di qualità a un cibo e descriverne l’origine geografica implicherebbe che tale alimento provenga senza ombra di dubbio da un determinato territorio e che da questo dipendano le sue caratteristiche e modalità di preparazione (inclusa la ricetta tradizionale). Se parliamo di pomodoro di Pachino, di basilico genovese o di olio pugliese, nessuno si aspetta che la materia prima sia coltivata all’estero e poi confezionata in queste località. Sarebbe un’indicazione fuorviante, che trae in inganno, con un risultato senz’altro deludente. Lo stesso ragionamento andrebbe applicato alle produzioni IGP, a maggior ragione per via di un riconoscimento ufficiale e politico sia dello Stato italiano che della UE, ma a conti fatti non è così.

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Gianpaolo Usai

Educatore Alimentare, ha conseguito nel 2014 il Diploma di Nutrizione presso il College of Naturopathic Medicine (UK). Fondatore di ciboserio.it, il portale sulla spesa sana e l’educazione alimentare. Si occupa dello sviluppo di progetti di educazione alimentare in tutta Italia.