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Il costo ambientale nascosto dell’insalata in busta

Abbiamo già parlato [1] in un articolo di qualche tempo fa dell’insalata in busta e mostrato come questo prodotto si caratterizza per la perdita di nutrienti ed un costo di circa otto-dieci volte superiore del prodotto fresco. Nell’articolo di oggi vogliamo soffermarci sul fatto che queste insalate rappresentano in realtà anche uno dei prodotti meno sostenibili che troviamo al supermercato.

Sebbene questo tipo di prodotto presenti numeri e statistiche di vendita sempre in aumento, come tutti i cibi già sbucciati e confezionati (quali gli spicchi di arancia o le uova sode, già confezionati nella plastica), va sottolineato che la messa in commercio di tali prodotti comporta un prezzo salato che noi tutti paghiamo. Parliamo, ovviamente, di costi negativi ambientali e sociali a carico della collettività

Boom di serre in Meridione

La provincia di Salerno è ormai diventata la seconda regione in Europa ad avere la maggiore concentrazione di serre e coltivazioni industriali, dopo quella gigantesca e mostruosa della regione di Almeria nel sud della Spagna (irraggiungibile con i suoi 26 mila ettari [2] di serre), chiamata «Mar de plastico» ovvero il mare di plastica per la sua spaventosa estensione. In Italia comunque non siamo da meno, in quanto tra le serre della Lombardia, del Veneto, e quelle della Piana del Sele, in provincia di Salerno, le tre aree italiane più grandi per la coltivazione dell’insalata di quarta gamma ovvero quella in busta, abbiamo raggiunto più o meno la stessa estensione in ettari dell’Almeira. 

Basta andare nella provincia di Salerno, tra Eboli e Battipaglia per rendersene conto. Se si attraversano i viadotti dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria quest’area sembra un’unica palude di plastica con 7000 ettari di serre, in cui crescono le nostre insalatine e rucole disponibili tutto l’anno, una produzione tra l’altro fortemente sostenuta dai fondi europei che finanziano al 70% la costruzione delle serre o il 90% se sono destinate al BIO (sulla verdura biologica coltivata in serra ci sarebbe da affrontare l’argomento a parte). 

Accanto alle serre del salernitano ci sono poi anche gli stabilimenti per la lavorazione perché ovviamente l’insalata non cresce pulita e imbustata, ma va lavata e lavorata. Quanta acqua si consuma per lavare queste verdure? Secondo Slow Food parliamo di una quantità compresa tra i 5 e i 10 litri per chilo di prodotto prima del taglio, a cui se ne devono aggiungere altri 3-4 litri dopo il taglio. All’acqua utilizzata dobbiamo aggiungere il costo energetico della refrigerazione delle celle lungo la catena del freddo fino ad arrivare ai potenti frigo nei supermercati, che a loro volta hanno un ulteriore costo energetico e ambientale da sopportare.

E poi c’è la confezione di plastica. Il consumatore spende ameno dieci euro al chilo per avere l’insalata pronta e soprattutto per il confezionamento di plastica, in alcuni casi due confezioni per prodotto, ovvero vaschetta più involucro di copertura. Involucri che finiscono nella spazzatura. Tra imballaggi, confezioni e bottiglie di plastica i numeri sono impressionanti: in Italia ogni anno vengono prodotti circa 40 chili di rifiuti di plastica a persona. A livello globale – secondo i dati dell’ OECD (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) – se ne consumano circa 500 milioni di tonnellate.

Problemi ambientali e dissesto idrogeologico

Nel Salernitano la prima conseguenza di questa esplosione di impianti di lavorazione delle insalate di IV gamma è innanzitutto idrogeologica, dal momento che la serricoltura contribuisce all’impermeabilizzazione del terreno e quindi acuisce i problemi di alluvioni ed esondazioni resi già cogenti da impianti di deflusso refluo piuttosto vetusti. La situazione è diventata così critica che ha spinto il Consorzio di bonifica in Destra del fiume Sele a inserire dei paletti ben precisi per la diffusione degli impianti fissando [3]dei tetti alle costruzioni che oscillano, in base alle caratteristiche del territorio, tra il 50 ed il 70% degli ettari disponibili.

La Piana del Sele continua ad essere molto ambita, per la sua naturale fertilità e le condizioni ottimali di clima e umidità per far crescere le verdure

Ma nonostante questi paletti la piana di Salerno continua ad essere molto ambita, per la sua naturale fertilità e le condizioni ottimali di clima e umidità per far crescere le verdure, attirando imprenditori e aziende della Lombardia che hanno già impianti per la produzione di insalate in busta (IV gamma) al Nord e adesso arrivano in Campania per aprire nuovi impianti, più redditizi di quelli del Nord fra l’altro, perché la produttività e la resa nella zona di Salerno è doppia rispetto a quella della Lombardia. «I costi per l’acquisto di un ettaro – precisa [4]Carmine Libretto, direttore Confagricoltura Salerno – oscillano tra i 100mila e i 300mila euro per ettaro mentre l’affitto va dai 3000 ai 6000 euro annui per ettaro. Il vantaggio per i produttori lombardi che vengono a coltivare orticole di IV gamma sono le favorevoli condizioni climatiche che di fatto raddoppiano la produttività. Per la rucola, ad esempio, se in Lombardia si fanno massimo 4 tagli l’anno, qui da noi si arriva a farne anche otto».

Tra gli ortaggi e verdure più coltivate in questa area ci sono pomodoro (oltre 740 ettari per più di 547 mila quintali l’anno), lattuga (mille ettari per 320 mila quintali l’anno) e rucola, 1.200 ettari per 60 mila quintali a taglio. Ma si producono anche carota, radicchio, ravanello e valeriana. Con questo trend di crescita la provincia di Salerno è destinata a scippare il primato produttivo per la IV gamma alla Lombardia che fino a poco tempo fa era al primo posto con il 31% degli ettari coltivati, seguita con il 30% dalla Campania, Veneto (11%) e Toscana(8%). E in tutto ciò c’è chi millanta grandi prospettive di crescita per l’occupazione con l’assunzione di tanti lavoratori, ma se è vero che devono essere impiegate molte persone per lavorare questa verdure di IV gamma, resta da vedere quanto sia regolare, onesta e ben retribuita questa occupazione, e se non vi siano invece anche in questo caso sfruttamento della manodopera e condizioni retributive non idonee. 

Inutile dire che da anni si sono levate [5] voci che denunciano già lo sfruttamento dei braccianti in questa zona, chiamata anche «la California d’Italia» per la ricchezza della sua agricoltura e per i “prodotti di eccellenza” dei suoi comparti. Il problema dello sfruttamento dei lavoratori e del caporalato nella Piana del Sele è noto da anni anche ai nostri Ministeri dell’Agricoltura e dell’Interno e ultimamente si cerca di porvi un freno, come si può leggere [6]nelle dichiarazioni ufficiali sul sito del Ministero dell’Interno stesso. Ma se devo essere onesto, leggendo il documento del ministero, è difficile capire la differenza, da parte delle nostre autorità politiche, di integrare in maniera corretta i migranti che arrivano dall’Africa, o piuttosto di sfruttarli come manodopera a basso costo di gestione, inserendoli immediatamente al loro arrivo in Italia in queste zone di lavoro massacrante (Piana del Sele e altre zone agricole intensive in Italia).

Alla fine di tutto, quello che mi chiedo e vi chiedo è: ma davvero dobbiamo pagare un prezzo così alto in termini ambientali per avere un sacchetto di rucola o valeriana pronta all’uso (che non fa nemmeno bene alla salute)? Ma costa davvero così tanto tempo e fatica lavare e asciugare un cespo di lattuga fresca? Una onesta analisi costi-benefici mostra chiaramente come stiamo percorrendo una strada del tutto sbagliata.

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Gianpaolo Usai

Educatore Alimentare, ha conseguito nel 2014 il Diploma di Nutrizione presso il College of Naturopathic Medicine (UK). Fondatore di ciboserio.it, il portale sulla spesa sana e l’educazione alimentare. Si occupa dello sviluppo di progetti di educazione alimentare in tutta Italia.