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Tutto ciò che non torna nell’inchiesta del New York Times sugli stupri di massa del 7 ottobre

Assenza di prove, evidenti discrepanze, una narrazione distorta e parziale degli eventi, mancata trasparenza, influenza diretta sulle famiglie delle vittime, pressione sui testimoni, assenza di verifica incrociata delle testimonianze, linguaggio emotivo. Sono queste alcune delle gravissime accuse che sono state mosse al New York Times [1] per l’inchiesta ‘Screams Without Words’: How Hamas Weaponized Sexual Violence on Oct. 7 (tradotto: ‘Grida Senza Parole’: come Hamas ha usato come arma la violenza sessuale il 7 Ottobre), curata dal Premio Pulitzer Jeffrey Gettleman, dalla regista Anat Schwartz e dal reporter freelance Adam Sella (nipote della Schwartz). Nell’articolo si parla dell’esistenza di «un vastissimo schema di violenza di genere» perpetrato da Hamas durante l’attacco del 7 ottobre. Secondo gli autori, i terroristi avrebbero aggredito brutalmente e ucciso in modi efferati le donne, sottoponendole a violenze sessuali e a mutilazioni

L’articolo, ripreso dai media internazionali e italiani [2] (un titolo tra tutti, quello sensazionalistico di La Stampa [3]: “La violentavano, poi le hanno tagliato il seno e se lo lanciavano per gioco”: l’inchiesta del New York Times scopre l’orrore degli stupri di Hamas nel raid del 7 ottobre), è stato contestato da giornalisti d’inchiesta di diverse testate indipendenti (October 7 Fact Check [4], Mondoweiss [5], Electronic Intifada [6], Max Blumenthal di The Grayzone [7] e Jeremy Scahill di Intercept [8]) che, senza giustificare le violenze di Hamas, chiedono, però, una maggiore trasparenza e responsabilità riguardo alla ricostruzione degli eventi del 7 ottobre.

A essere messa in discussione è anche l’imparzialità dei tre autori [8], accusati di essere dichiaratamente filoisraeliani. Il Times ha aperto un’inchiesta interna su Anat Schwartz. Come mostrato dall’account Telegram @zei_squirrel  [9], infatti, Schwartz [10] – che lavora come regista alla tv di Stato israeliana e aveva fatto parte dell’intelligence dell’aviazione militare di Israele – ha messo diversi like a post di propaganda sionista su X (prima che venisse ingaggiata per l’inchiesta sul NYT), fra cui uno che definiva i palestinesi “animali” che meritano un “Olocausto” e uno che invocava la trasformazione di Gaza in un “mattatoio [11]. Insieme al coautore (e nipote), Adam Sella, Schwartz ha fatto pressione su un testimone [12], affinché collaborasse con la storia del Times, incalzandolo perché era “importante per la propaganda israeliana [13]”.

Come ricostruito da Mondoweiss [14], la narrazione sui presunti stupri di massa è partita [15] dalla fondazione Zaka [14], un’agenzia israeliana, che ancora il 23 febbraio 2024 Il Corriere [16] cita come fonte attendibile. Tra le dichiarazioni più eclatanti di Zaka vi è stata quella, poi rivelatasi falsa, riguardante la decapitazione di 40 bambini israeliani, smentita dalle stesse autorità israeliane, che avevamo esaminato in questo articolo [17]. Zaka, come ricorda Pino Cabras [18], è stata fondata da Yehuda Meshi-Zahav [19], morto nel giugno 2022, un anno dopo aver tentato il suicidio nel marzo 2021, in seguito all’arresto per reati di pedofilia e stupro, su molteplici donne e bambini. Come ha dimostrato Max Blumenthal il 6 dicembre per The Grayzone [20], la testimonianza di Yossi Landau, comandante meridionale di ZAKA è infondata. Questi aveva in precedenza avallato anche la fake news dei bambini decapitati e ha affermato che coloro che mettono in dubbio le sue affermazioni “dovrebbero essere uccisi”.

La controinchiesta di Grayzone [7], condotta da Max Blumenthal e Aaron Maté, contesta l’articolo del NYT accusandolo di sensazionalismo, salti logici e mancanza di prove concrete a supporto delle sue conclusioni. Nonostante il reportage del NYT affermi di basarsi su testimonianze di 150 persone, infatti, nessuna di queste proviene direttamente dalle vittime. A ciò si aggiunge la mancanza di prove forensi sostanziali, come campioni di DNA, analisi del sangue o tracce di fluidi corporei.

Le pesanti critiche passano anche per la manipolazione delle testimonianze, come ricostruisce nel dettaglio Mondoweiss [5]: i membri della famiglia di Gal Abdush, soprannominata “la ragazza in abito nero” e protagonista dell’articolo, nega che la giovane sia stata stuprata, accusando, anzi, il giornale di averli ingannati. Entrambe le sorelle di Abdush, Miral Alter e Tali Barakha, hanno dichiarato su Instagram [21] che non c’è prova dello stupro e hanno criticato il quotidiano per aver travisato la storia. Anche il cognato di Abdush, Nissim Abdush [22], in un’intervista del 4 gennaio al canale israeliano Channel 13, ha contraddetto la ricostruzione del NYT, ha ripetutamente negato che sua cognata sia stata violentata, mentre la madre della donna, Etti Brakha, in un’intervista del 29 dicembre al sito web israeliano YNET [23]  ha affermato di essere stata imbeccata sulla notizia dello stupro: “Non sapevamo affatto dello stupro. Lo abbiamo saputo solo dopo che un giornalista del New York Times ci ha contattato. Hanno detto che le prove corrispondevano e hanno concluso che era stata aggredita sessualmente”.

Il NYT identifica quattro testimoni oculari dei presunti episodi di stupro e omicidio: una donna identificata solo come “Sapir” e tre uomini: Yura Karol, un veterano delle forze speciali israeliane Raz Cohen e Shoam Gueta. Ciascuno di questi testimoni oculari manca, però, di credibilità. Le loro storie sono improbabili, esagerate o impossibili: o c’è totale mancanza di conferme o i presunti testimoni si sono contraddetti, cambiando le loro storie nel tempo

La polizia israeliana non ha trovato testimoni della violenza sessuale che corrispondano alle affermazioni dell’inchiesta giornalistica. La contabile “Sapir”, definita dal NYT come “una dei testimoni chiave della polizia israeliana”, secondo il Times, “ha visto altre tre donne violentate e terroristi portare con sé le teste mozzate di altre tre donne”. Peccato che, come notano Blumenthal e Maté, non esiste alcuna registrazione di donne decapitate il 7 ottobre e ciò inficia la sua testimonianza. Inoltre, secondo Haaretz [24], “gli investigatori non sono stati in grado di identificare le donne che, secondo la testimonianza di [Sapir] e di altri testimoni oculari, furono violentate e uccise”. Simili problemi di credibilità sorgono quando si analizza la versione del veterano e mercenario delle forze speciali israeliane di nome Raz Cohen. Dalla sua prima intervista del 9 ottobre, Cohen ha modificato più volte la sua testimonianza [25]. Lo stesso dicasi per la testimonianza di un presunto paramedico.

Inaffidabile anche il video di Eden Wessely, citato dal NYT, di cui si dubita persino dell’esistenza: come ha sottolineato Mondoweiss, [5] «Attualmente non c’è traccia del video su Internet nonostante il [NY Times] affermi che sia “diventato virale”». Il video, infatti, non è rintracciabile online (il giornale non ha linkato il video, ma ne ha diffuso un’immagine lontana e indistinta che non rivelava nulla). 

Queste controinchieste sollevano degli interrogativi sull’operato del NYT: come ha fatto il quotidiano a non rendersi conto che gli autori dell’articolo, Schwartz in testa, non erano le persone più adatte a firmare una storia così delicata e a così alto impatto politico? Ha forse subito pressioni o influenze dal governo Netanyahu per strumentalizzare i femminicidi e disumanizzare i palestinesi, in modo da giustificare la vendetta di Israele?  

[di Enrica Perucchietti]