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Una storia antidiplomatica: il documentario che svela l’ipocrisia occidentale sui migranti

Una storia di sofferenze, prigionia e torture, che giorno per giorno si sviluppa in un turbinio di bugie e nefandezze, in cui la distinzione manichea tra i “buoni” e i “cattivi” è solo una consolatoria illusione. È questo il tremendo spaccato che emerge da “Una storia antidiplomatica” (prodotto da L’Antidiplomatico), l’intenso documentario sulle carceri libiche di Michelangelo Severgnini, che, in occasione del decennale del naufragio del 3 ottobre 2013, ha messo in fila gli snodi più problematici, afferenti all’universo della geopolitica, della criminalità e dell’informazione, che contraddistinguono l’ondata dei flussi migratori dalla Libia all’Europa. Un lavoro dagli effetti urticanti, perché quelli che il documentarista propone al pubblico sono spunti di verità completamente estranei alla narrazione del mainstream politico e giornalistico, che viene duramente criticata per come banalizza il fenomeno e per quanto poco aderisce alla verità dei fatti. Una distorsione della realtà che abbraccia anche le azioni di chi, volenterosamente, si mette in gioco per le salvezze in mare, ma che produce conseguenze controproducenti in primis per le vittime di un sistema che non fa che autoalimentarsi.

Severgnini parte da una disamina della situazione politica in Libia, lacerata per anni dalla guerra civile, evidenziando a più riprese come sia stato proprio l’Occidente “democratico” a scegliere di finanziare e fomentare l’occupazione militare del Paese – ottenuta attraverso la soppressione del voto e il sostegno alle milizie – allo scopo del saccheggio di petrolio. A tal proposito, l’autore del documentario parla espressamente del “colonialismo” della NATO sul Paese nordafricano attraverso le sue pedine di Tripoli, nitidamente sfociato nell’annullamento delle elezioni presidenziali del dicembre 2021, poiché Saif Gheddafi – figlio dell’ex rais ucciso dieci anni prima, profilo osteggiato dall’Alleanza Atlantica – era dato ampiamente come favorito. Nel frattempo, orde di migranti che arrivano dai Paesi dell’Africa subsahariana, attratti dalle false garanzie di trafficanti senza scrupoli, continuano a finire reclusi nei campi di detenzione libici, dove vengono sottoposti a violente torture a scopo di estorsione. E che, senza un soldo in tasca, devono avvertire le loro famiglie affinché paghino una sorta di “riscatto”. Persone che in Libia, senza poter procedere verso le mete prestabilite, sono costretti a passare mesi o addirittura anni di sofferenza, con l’unico grande desiderio di tornare nei loro Paesi d’origine. Ad affermarlo, all’interno del documentario, sono le vive voci dei diretti protagonisti, che spronano tutti coloro che, abbagliati dalle false promesse, ritengono conveniente mettersi in marcia per il “grande viaggio”, a non rifare il loro stesso errore. Infatti, come afferma il regista, la «narrazione fiabesca» della “Terra Promessa” ha ormai «colonizzato le menti dei ragazzini africani non meno delle nostre».

Severgnini denuncia senza remore come un ruolo cardine, nell’inferno che i migranti devono patire, ce l’abbia la Guardia Costiera Libica, impegnata a intercettare i gommoni appena messi in acqua e arrestare immediatamente i partenti, probabilmente anche grazie a contatti con gli stessi scafisti. E i migranti, persi in colpo solo i soldi investiti, sono costretti a subire le angherie dei miliziani nelle prigioni. Nel computo degli attori direttamente o indirettamente responsabili della tragica situazione, secondo la tesi di Severgnini, ci sono anche le Ong, il cui effetto “pull factor”, trasformandosi in una specie di “marketing della traversata facile”, eserciterebbe enorme attrattiva su giovani africani alla ricerca di un futuro migliore. Le sfumature in ballo, a tal proposito, sono ovviamente innumerevoli. Certo è che sul lavoro di Severgnini in molti, anche tra i sedicenti “buoni”, vorrebbero far calare la saracinesca. Un esempio emblematico di censura è andato per esempio in scena nel novembre del 2022 al “Festival dei Diritti” di Napoli, dove l’autore presentava [1] il suo documentario “L’Urlo”. Dopo 20 minuti di proiezione, i responsabili di alcune ONG si sono alzati in protesta e uno di essi – come riportato con dovizia di particolari nel nuovo prodotto audiovisivo – si è recato alla consolle, imponendo la sospensione della visione. Gli stessi hanno poi duramente attaccato al microfono Severgnini, impedendogli di replicare. E, soprattutto, precludendo ai presenti di potersi fare un’idea complessiva sui contenuti del documentario.

Molto chiaro è il punto di vista di Severgnini sulla macro-questione oggetto del suo nuovo e coraggioso lavoro, come esposto dalla sua stessa voce in apertura: «Oggi in Africa resistere alle lusinghe dell’immigrazione irregolare è un processo di decontaminazione culturale, di decolonizzazione delle menti. Un processo contro “l’uomo bianco”, il quale si presenta ancora una volta sotto forma di salvatore, dall’alto dei suoi privilegi e soprattutto delle donazioni incassate». Per il regista, infatti, «l’accoglienza è solo l’ultimo capitolo di quella saga chiamata colonialismo, che si inventa sempre storie nuove, strappalacrime, per non farsi riconoscere».

[di Stefano Baudino]