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La guerra di Israele a Gaza non sta andando così bene come ci raccontano

Nonostante i principali media occidentali abbiano imposto la narrazione di un vantaggio strategico decisivo sul campo di battaglia da parte delle Forze di difesa israeliane (IDF), ritraendo di contro l’ala militare di Hamas come un’organizzazione in via di disfacimento, in realtà la situazione militare è molto più complessa e lo Stato ebraico sta incontrando diversi ostacoli nel raggiungimento dell’obiettivo chiave dichiarato, ossia distruggere l’organizzazione di resistenza palestinese e prendere il controllo militare della Striscia di Gaza. Dopo quasi quattro mesi di offensiva, infatti, fonti americane come l’Institute for the Study of war (ISW) riferiscono che Hamas si è nuovamente infiltrato nel nord della Striscia e a Gaza City, mentre resiste alle offensive di Israele al sud. Queste informazioni potrebbero servire a coprire il fatto che l’IDF non abbia mai realmente conseguito il pieno controllo sul nord del territorio assediato. Inoltre, secondo il Wall Street Journal (WSJ), circa l’80% dei tunnel di Hamas nell’enclave rimangono intatti e l’IDF ritiene che ci siano più tunnel di quanto si pensasse precedentemente. Secondo il Guardian, Hamas starebbe ricostruendo un sistema di governo nel nord dell’enclave, mantenendo un “fermo controllo” nel sud, sancendo così il fallimento delle forze israeliane nell’eradicare l’organizzazione palestinese.

Durante tutto il mese scorso, le milizie palestinesi hanno attaccato l’IDF nelle aree del nord della Striscia di Gaza dove le forze israeliane avevano precedentemente condotto operazioni di sgombero tornando ad occupare l’area. Il 25 gennaio, Hamas e il Movimento palestinese dei Mujahideen, che è una fazione palestinese allineata con Hamas e che ha espresso stretti legami con l’Iran, hanno lanciato razzi [1] contro un gruppo di forze israeliane in un attacco combinato a nord-ovest di Gaza City. Il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP), una fazione palestinese laica che combatte con Hamas, ha colpito con colpi di mortaio le forze israeliane nella Jabalia orientale. Lo stesso giorno, la Jihad islamica palestinese (PIJ) e il FPLP hanno condotto un attacco combinato contro una linea di rifornimento israeliana nel Governatorato Centrale della Striscia di Gaza. A sud, i combattenti palestinesi hanno continuato a opporre una strenua difesa contro le operazioni di sgombero israeliane nella parte occidentale e meridionale di Khan Younis. Sempre a sud, il 22 gennaio i combattenti di Hamas hanno lanciato un RPG contro un carro armato che proteggeva i militari israeliani e, contemporaneamente, contro due edifici a due piani, che sono crollati mentre la maggior parte delle forze sioniste si trovavano all’interno e nelle vicinanze, provocando la morte di 21 soldati israeliani. Il 31 gennaio, l’IDF ha ritirato la 5a Brigata di fanteria (assegnata alla 162a Divisione) dal nord della Striscia di Gaza, coerentemente, secondo quanto riferito, con la terza fase delle operazioni israeliane, che dovrebbero includere il rilascio dei riservisti e il passaggio a raid mirati. Tuttavia, secondo alcuni analisti, le brigate ritirate erano state sottoposte a un pesante logoramento non dichiarato che avrebbe reso necessario il ritiro per una ricostituzione. In totale Israele ha ritirato cinque brigate dal nord della Striscia, mentre Hamas ha ripreso il controllo del territorio.

«Purtroppo, sentiamo sempre più parlare della ripresa di [un’insurrezione] sia nel centro che nel nord di Gaza. Stiamo sentendo sempre più spesso che Hamas sta svolgendo attività di polizia nel nord di Gaza e regolando il commercio, e questo è un risultato molto negativo» ha dichiarato [2] l’ex capo del Consiglio di sicurezza nazionale di Israele, Eyal Hulata. Secondo Michael Milstein dell’Institute for National Security Studies, un think tank con sede a Tel Aviv, «Hamas esiste ancora, Hamas è sopravvissuto» e ha ripreso il controllo delle zone distrutte da Israele come il campo di Shaati, i campi profughi di Jabaliya, Shejaiya e Gaza City, dove è tornato a «fare rispettare l’ordine pubblico». Inoltre, le agenzie umanitarie che cercano di distribuire cibo, carburante e altri beni di prima necessità agli sfollati nel sud di Gaza continuano a trattare con funzionari nominati da Hamas. Anche la questione della distruzione dei tunnel non sta andando come sperato: il piano per inondare le infrastrutture sotterranee con acqua di mare, infatti, non sta funzionando, in quanto ci sarebbero problemi nel raggiungere una pressione dell’acqua sufficiente ad allagare i tunnel nell’entroterra. Secondo l’ISW, fonti israeliane hanno ammesso di non avere una soluzione decisiva per distruggere i passaggi sotterranei che sarebbero molti di più di quanto stimato in precedenza.

Bilal Y. Saab, membro di Chatham House – il centro studi britannico specializzato in analisi geopolitiche – ha dichiarato [3] all’emittente CNN che Israele è ancora molto lontano dal distruggere Hamas e che «la leadership dell’IDF capisce molto bene che il massimo che può fare è degradare gravemente le capacità militari di Hamas», ma non distruggerlo. Si tratta però di una corsa contro il tempo che risente delle pressioni internazionali, le quali potrebbero aumentare anche il disagio interno nei confronti di Netanyahu: «A quale prezzo arriverà questo successo tattico, e quanto tempo hanno gli israeliani per ottenere quel successo tattico senza soffrire di un’indignazione internazionale più significativa?» ha dichiarato Saab aggiungendo anche che «La situazione non è molto favorevole alle campagne militari che cercano di sradicare i movimenti politici militari che sono profondamente radicati». Se da un lato le forze israeliane sono ben lontane dallo sbaragliare Hamas, ossia dal loro principale intento dichiarato, dall’altro sono certamente riuscite a compiere un palese massacro di civili – ad oggi sono più di 27000 le vittime palestinesi – infliggendo una punizione collettiva al popolo palestinese vietata dal diritto umanitario internazionale e guadagnandosi l’accusa di genocidio da parte del Sudafrica presso la “Corte Internazionale di Giustizia”.

[di Giorgia Audiello]