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Come funziona il libero arbitrio? La ricerca cerca di fare luce su uno dei misteri della mente

Stai navigando online alla ricerca di un tappeto da stendere in salotto, ai piedi del divano. Trovi un modello che ti piace fra centinaia di altre tipologie, ma sei incerto sul colore: rosso o grigio? Opti per il primo, perché ti convince di più. Lo aggiungi al carrello e sei contento di aver preso una decisione autonoma, libera e consapevole. Ma è davvero così?

Chi crede nel libero arbitrio, quindi nel potere di prendere decisioni o eseguire azioni indipendentemente da qualsiasi evento o stato precedente dell’universo, risponderebbe di sì. Ma la questione è molto più complessa di così. Per secoli molti filosofi, fisici e religiosi hanno tentato di dimostrare o smentire l’esistenza della libera decisione, nonostante Noam Chomsky (filosofo, linguista, e scienziato cognitivista) abbia ribadito che tale traguardo potrebbe non essere raggiunto mai. Negli anni nel dibattito si sono inserite anche le neuroscienze. Ma provare a delineare un quadro più chiaro attorno al tema è una questione delicata: arrivare ad una conclusione, in una o nell’altra direzione, cambierebbe drasticamente l’approccio alla vita individuale e quella sociale.

Se infatti gli esperti riuscissero a dimostrare che il libero arbitrio non esiste, significherebbe di fatto che, seppur rinascendo una seconda volta, ci comporteremmo esattamente allo stesso modo, perché così è scritto e così è fatto il nostro cervello (il cosiddetto determinismo). Una dichiarazione che avrebbe enormi implicazioni: se in qualche modo le nostre scelte sono predeterminate e non libere, che senso ha, per esempio, tormentarsi sui dilemmi morali?

La fisica quantistica ha dimostrato [1] che il verificarsi di alcuni eventi è letteralmente casuale. Una scoperta che però non risolve il problema, anzi, lo rende ancora più intricato. Se da una parte il determinismo annulla ogni possibilità che il libero arbitrio esista, dall’altra anche il concetto di casualità lo fa: significherebbe infatti che ogni singola azione non è determinata dalla nostra volontà di scelta, ma, appunto, dal caso. In pratica un cane che si morde la coda e che solo l’intervento della genetica, delle neuroscienze e della biologia evoluzionistica può forse salvare dalla dannazione – ma anche all’interno di questi campi convivono posizioni diverse.

Partiamo dai fatti. Fin dall’inizio delle loro ricerche i neuroscienziati si sono accorti che l’attività cerebrale si mette in moto alcuni secondi prima che il soggetto acquisti la consapevolezza di voler intraprendere quell’azione. Negli anni ’60 infatti alcuni studi [2] avevano scoperto che quando le persone eseguono un movimento semplice e spontaneo, il loro cervello mostra un aumento dell’attività neurale (chiamato “potenziale di prontezza”) prima di compierlo. Un’intuizione confermata negli anni ’80 dal neuroscienziato Benjamin Libet, secondo cui [3] il potenziale di prontezza precedeva addirittura l’intenzione dichiarata di una persona di muoversi, non solo il suo movimento. Più recentemente un gruppo di ricercatori ha scoperto che alcune informazioni su una decisione imminente sono già presenti nel cervello fino a 10 secondi in anticipo [4] rispetto alla presa di posizione su una certa azione. Risultati che, però, non hanno posto fine agli interrogativi – o meglio, hanno comunque diviso le interpretazioni.

La questione di fondo è che gli studi condotti fino ad oggi si sono concentrati principalmente su azioni arbitrarie, ripetitive, che ormai facciamo distrattamente e inconsciamente e che quindi potrebbero essere prive di un vero significato ai fini della comprensione del libero arbitrio – come scegliere di mettere il piede sinistro davanti al destro per camminare o viceversa. Movimenti che la nostra attività cerebrale traccia prima ancora che ci rendiamo conto che stiamo per farli. Cosa avviene invece dentro di noi quando prendiamo decisioni più importanti, che fanno davvero la differenza nelle nostre vite? Quando decidiamo se lasciare il lavoro? O quando valutiamo di trasferirci altrove?

Anche in questo caso due neuroscienziati hanno provato a fornirci una risposta. Nel 2019 gli esperti Uri Maoz, Gedeone Yaffe, Christof Koch e Liad Mudrik hanno chiesto [5] ai partecipanti al loro esperimento di scegliere, premendo il pulsante destro o sinistro, tra due organizzazioni no-profit a cui donare mille dollari. Ad alcuni individui è stato poi specificato che in ogni caso, a prescindere dalla scelta, entrambe le organizzazioni avrebbero ricevuto 500 dollari. Ai restanti è stato invece ribadito l’importanza di ponderare bene tutte le condizioni, perché per via della loro scelta uno dei due gruppi sarebbe rimasto a secco.

Dai risultati è emerso che le scelte prive di significato erano precedute da un potenziale di prontezza, le altre no. In altre parole, quando ci preoccupiamo di una decisione e delle sue conseguenze, il nostro cervello sembra comportarsi in modo diverso rispetto a quando la decisione è arbitraria. Gli esiti sono però incompatibili con i risultati di un sondaggio [6] pubblicato nel 2022, in cui tre esperti hanno chiesto a 600 persone di valutare il grado di libertà delle scelte compiute dagli altri. Queste sono state giudicate tutte tendenzialmente e ugualmente libere, senza distinzione tra quelle più significative e quelle meno importanti.

La questione dunque è tutt’altro che risolta, e gli scenari da indagare sono ancora decisamente ampi, con importanti esperti che si schierano con decisione [7] da una parte (Robert Sapolsky [8], acclamato biologo e neuroscienziato statunitense, crede che il libero arbitrio non esista e che le nostre scelte siano condizionate dalla biologia, dagli ormoni, dall’infanzia e dalle circostanze della vita) e altri che rimangono nella sfera del possibile. Tuttavia negli anni, oltre ad essere cambiati gli strumenti di indagine, si è evoluta anche la consapevolezza che il libero arbitrio, che esista o meno, non è probabilmente come ce lo siamo immaginato. Ma la partita non è ancora finita.

[di Gloria Ferrari]