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“La fine e l’inizio” (1993), una poesia di Wislawa Szymborska

Dopo ogni guerra
c’è chi deve ripulire.
L’ordine, seppure approssimato,
certo non viene da solo.

C’è chi deve spingere le macerie
al bordo delle strade,
per far passare
i carri pieni di cadaveri.

C’è chi deve calarsi
nella melma e nella cenere
tra le molle dei divani letto,
tra le schegge di vetro,
e gli stracci insanguinati.

C’è chi deve trascinare una trave
per puntellare un muro.
C’è chi rimetterà vetri alla finestra,
e monterà le porte sui cardini.

Fotogenico non è
e richiede anni e anni.
Tutte le telecamere
sono già fuori,
per un’altra guerra.

I ponti sono da riattivare,
e le stazioni da rifare.
Ridotte a brandelli le maniche
a forza di rimboccarle.

Uno, con la scopa in mano,
ancora ricorda com’era.
Uno che ascolta
annuisce col capo superstite sul collo.

Ma, in zona, cominceranno ad aggirarsi
quelli che ne saranno annoiati.

C’è chi andrà ancora
a disseppellire sotto un cespuglio
argomenti corrosi dalla ruggine
per depositarli sul mucchio dei rifiuti.

Chi sapeva di che si trattava
deve far posto a chi
ne sa troppo poco.
O meno di poco.
Oppure assolutamente niente.

Tra l’erba che ha ricoperto
le cause e gli effetti
dev’esserci qualcuno disteso,
con una spiga tra i denti
perso a guardare le nuvole.

Una poetessa, un poeta non possono avere rancore ma soltanto nutrire rimpianti come Szymborska quando, in un’altra poesia, dice di credere nelle “lavagne fracassate”, cioè nelle parole giuste sprecate.
E la guerra, oltre la morte, il disordine, la desolazione, la resa dei sentimenti è un enorme spreco, è un crocevia di maledetti destini, come in quei versi di Szymborska sull’attentato terroristico nel bar (da Grande numero, 1976), dove c’è chi si salva perché non è entrato in quel locale o ne è uscito qualche istante prima dell’esplosione.

Gli orrori della guerra sono dominati da volontà distorte ma anche da casualità. Questa idea di lanciare bombe o missili tanto qualcuno, colpevole verrà colpito è la dimostrazione non che prevale la vendetta ma qualcosa di molto più perverso. La vendetta è mirata contro una vittima precisa, il terrorismo ha un bersaglio ma la sua motivazione travalica e attorno ai bersaglio designato c’è sempre qualche caduto in più. La guerra è ancor più di vendetta e terrore perché contiene l’idea della carneficina, del disastro procurato quasi fossero in gioco cieche forze naturali.

La guerra sentiamo in effetti che è indiscriminata come il cielo sereno che è sereno per tutti, come l’amore che è un atteggiamento che ancora cerca il suo destinatario. La guerra fuori dai campi di battaglia è per di più un oltraggio al bene, all’uguaglianza, è un programma di morte senza alternative.

Chi perdesse però la memoria, o volesse rispolverare oscuri moventi  “sepolti dalla ruggine”, chi credesse di potersi nascondere o esimere, tenga davanti agli occhi quel padre, uno fra i tanti che abbiamo visto, col suo bambino straziato in braccio.

Sappia, ricordi il mito classico, l’icona. È il figlio che porta in braccio il padre, non il contrario, è la pietà che, se ancora c’è l’umano, deve dominare. Altrimenti è inutile invocare il divino a sgravio della propria coscienza, oppure chissà quale appartenenza o quale investitura speciale, perché il divino non è mai complice, non è mai contro qualcuno. Sempre che sia divino davvero e non soltanto religioso.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]