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Possibile crimine di guerra: l’ONU chiama Israele a rispondere del massacro di Jenin

«Gli attacchi aerei e le operazioni via terra portate avanti da Israele nella Cisgiordania occupata, prendendo di mira il campo profughi di Jenin e uccidendo almeno 12 palestinesi, potrebbero potenzialmente costituire un crimine di guerra». Quelle pronunciate da alcuni esperti [1] delle Nazioni Unite sono parole forti e importanti per almeno due motivi: prima di tutto, riconoscono che le azioni di Israele abbiano violato il diritto internazionale. Ma soprattutto, condannano apertamente – seppur solo in modo verbale – lo Stato ebraico e chiedono di rendere conto delle violenze dell’occupazione a danno dei palestinesi.

In funzionari – ispettori speciali che monitorano da anni la situazione palestinese – hanno specificato che la rappresaglia potrebbe alla fine essere considerata un ‘crimine’ visto che «le operazioni delle forze israeliane nella Cisgiordania occupata, l’uccisione e il ferimento grave della popolazione occupata, la distruzione delle loro case e infrastrutture e lo sfollamento arbitrario di migliaia di persone, equivalgono a gravi violazioni del diritto internazionale e degli standard sull’uso della forza». Secondo la normativa infatti la guerra non è di per sé un reato. Può essere combattuta – è dunque ‘legale’ – a patto però che vengano rispettate determinate regole, tra cui il divieto di utilizzare certe armi e di bombardare deliberatamente i civili.

Nel caso in discussione, è accaduto che a partire dallo scorso 3 luglio, nel campo profughi di Jenin, in Cisgiordania occupata, l’esercito israeliano ha lanciato un’operazione che, per intensità e violenza, mancava nella regione da vent’anni. Un’offensiva che ha provocato 12 morti e centinaia di feriti, sfollando circa 3mila dei 14mila residenti. Jenin è da tempo un simbolo per la Palestina: un luogo sorvegliato dalle forze di occupazione israeliane e “casa” di diverse generazioni di palestinesi. Una terra martoriata più volte da Israele, che con la scusa di «azione contro terroristi e contro l’Iran», giustifica odio, violenza e repressione nei confronti dei cittadini [2].

Dopo due giorni di assedio, i soldati israeliani hanno lasciato il campo in condizioni disastrose. Le pale delle ruspe militari hanno spaccato il manto d’asfalto delle strade, distruggendo parte della rete idrica ed elettrica. Un’operazione che i vertici militari israeliani hanno definito «bonifica» necessaria a «eliminare gli ordigni» che i gruppi armati avrebbero piazzato sotto l’asfalto o ai lati delle strade per colpire i mezzi blindati «mettendo a rischio prima di tutto la popolazione civile palestinese», ma che invece è sembrata più una punizione collettiva. Un’impressione avuta dagli stessi funzionari ONU, per cui «la popolazione palestinese è stata etichettata come una minaccia alla sicurezza collettiva delle autorità israeliane».

Tuttavia, nonostante il diritto internazionale punisca atteggiamenti come questo, è piuttosto probabile, come accaduto in molti altri conflitti del passato, che alla fine nessuno venga sanzionato o condannato per aver commesso certe azioni. Eppure persino l’ONU ha riconosciuto che bombardare i civili e impedire addirittura a questi di ricevere cure mediche e assistenza da parte degli operatori umanitari è un aperto affronto alla normativa internazionale, e un’amplificazione della violenza strutturale che ha permeato per decenni il territorio palestinese occupato.

Ma, seppur riconoscendo l’importanza di sanzioni e condanne, «affinché questa incessante violenza abbia fine», c’è solo una soluzione: «l’occupazione illegale di Israele deve finire». Tuttavia è difficile che accada se prima non cessa «l’impunità di cui lo Stato ha goduto fino ad ora».

[di Gloria Ferrari]