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Torture nel carcere di Modena, nessun colpevole: chiesta l’archiviazione per i poliziotti

La procura di Modena, con la firma del procuratore capo Luca Masini, ha formalizzato il 23 giugno – e reso nota il 29 – la richiesta di archiviazione per i 120 agenti della polizia penitenziaria indagati per violenza [1], lesioni e tortura verso numerosi detenuti del carcere di Sant’Anna. I fatti risalgono alla rivolta che ha avuto luogo nel penitenziario l’8 marzo 2020, risoltasi con un bilancio di nove morti e diversi feriti. Secondo la procura, le testimonianze dei detenuti sulle botte e le torture subite sono “inattendibili”. Non ci sono video, e la documentazione sanitaria è insufficiente, mentre le dichiarazioni su luoghi e modalità dei pestaggi sarebbero “discordanti”. Nel giugno 2021 era già stata archiviata l’indagine sulle nove morti, in quanto si era esclusa ogni responsabilità delle forze dell’ordine, attribuendo i decessi unicamente all’overdose di metadone e psicofarmaci. Se la richiesta di archiviazione venisse accolta, verrebbe così scritta la parola “fine” a una delle pagine più nere della storia italiana degli ultimi anni. L’unica indagine a rimanere ancora aperta sarebbe quella contro gli stessi carcerati per devastazione e saccheggio, resistenza e lesioni aggravate a pubblico ufficiale. Alcuni dei detenuti imputati sono gli stessi che hanno denunciato le violenze subite.

«La complessa e articolata attività di indagini espletata – hanno scritto i PM – ha messo in evidenza la totale inattendibilità dei racconti forniti da ciascuno dei soggetti coinvolti». Accuse infondate, dicono, testimonianze inattendibili. «I presunti pestaggi non trovano riscontro nella documentazione sanitaria acquisita» ribadiscono [2]. Ossia, non vengono riportate ferite. O in altri casi le ferite riscontrate sui detenuti sarebbero da correlare alle «condotte particolarmente attive e facinorose» messe in atto durante la rivolta. Insomma, i detenuti si sono fatti male da soli, così come si sono uccisi da soli.

Ma non solo. Per i pubblici ministeri: «Appare oltremodo inverosimile che, a fronte di una situazione così allarmante, il personale di polizia penitenziaria concentrasse la propria presenza e le proprie energie per portare a compimento azioni di pestaggio in danno dei detenuti, piuttosto che impegnarsi affinché quella che appariva come una rivolta dalle dimensioni “epocali” potesse essere gestita nel migliore dei modi e nel minor tempo possibile». Secondo i PM, le guardie avevano troppo da fare per mettersi a picchiare i prigionieri. A nulla valgono le testimonianze, le ferite riportate, le morti. La polizia penitenziaria si è trovata a gestire l’emergenza, è scritto nella richiesta di archiviazione, prodigandosi «nell’interesse e a tutela in primo luogo dell’incolumità» dei detenuti.

Alice Miglioli, del Comitato verità e giustizia per la strage del Sant’Anna di Modena, ha pubblicato un contributo [3] in cui esprime la sua indignazione per l’archiviazione e le sue giustificazioni. Per esempio, sull’assenza di video di sorveglianza. «Video che prima non ci sono, poi ci sono, poi non ci sono di nuovo» scrive. Prima perché i detenuti hanno distrutto le telecamere. Ora perché i secondini hanno staccato la corrente. «Video di cui la procura non vuole parlare e che (…) potrebbero comparire magicamente nel momento in cui ci sarà da accusare di devastazione e saccheggio i detenuti ritenuti responsabili della rivolta.» Gli avvocati delle parti offese, tra i quali figurano il il Garante nazionale delle persone private della libertà e l’associazione Antigone, valuteranno le oltre 240 pagine appena presentate dalla procura e decideranno se tentare un’opposizione alla richiesta di archiviazione.
Il senatore e capogruppo di Fratelli d’Italia, Michele Barcaiolo, dà per scontato che l’archiviazione verrà confermata e scrive in un comunicato stampa [4]: «Non ci furono torture al carcere Sant’Anna. Ora si chieda scusa ai nostri agenti. Per loro finisce il calvario. Per questo mi dico soddisfatto dell’epilogo, e rinnovo il ringraziamento verso quegli uomini e quelle donne che con spirito di sacrificio lavorano per assicurare ordine, legalità e sicurezza».

Prove scomparse, testimonianze – quelle dei detenuti – infondate: una consuetudine, ormai, quando si indagano le responsabilità degli uomini in divisa. Conclude Alice Miglioli, nel contributo pubblicato: «Le morti, le botte e le ingiustizie, lo Stato le sta imputando ai detenuti stessi, nell’operazione di capovolgimento tra vittima e colpevole di cui è maestro. In questo gioco perverso, più si è impossibilitati ad agire, più in basso si è tra i gradini della scala sociale, più si è facili vittime di accuse, mentre i veri responsabili si allontanano sempre più dal luogo del fatto.»

[di Monica Cillerai]