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Mi chiamavo Yassine, sono morto a 16 anni nell’indifferenza delle istituzioni

Nel novembre 2021 Yassine ha 16 anni e frequenta l’Istituto Golgi di Brescia. È un ragazzo con qualche difficoltà in più dei coetanei, perché affetto da grave disturbo dello spettro autistico associato a sindrome di Tourette. Patologie che lo rendono invalido e “con necessità di assistenza continua, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita”. La mattina del 24 novembre Yassine si trova a scuola, ma vuole tornare a casa. Con lui ci sono Nicola, l’assistente ad personam, e Ornella, l’insegnante di sostegno. Provano a convincere Yassine a rimanere in classe, ma lui non ne vuole sapere, così scatta in piedi e fugge. Corre in strada, Nicola lo insegue, chiama aiuto, qualcuno forse pensa a una rissa e chiama la polizia. Nel mentre, un bidello chiama la madre di Yassine, Amina, che si precipita a scuola. Arriva nemmeno 20 minuti dopo, solo per trovare suo figlio circondato da agenti, «inginocchiato come una bestia, mani e piedi ammanettate, la faccia premuta per terra». Il trauma di Yassine è irreversibile. Le uniche parole che pronuncerà nelle settimane successive sono il nome della madre e “per favore non picchiatemi”. Un calvario che culminerà nella serata del 19 dicembre, quando il ragazzo, probabilmente in stato alterato per via dei farmaci che assumeva in seguito al trauma subito, cadrà dalla finestra del suo appartamento, morendo poco dopo in ospedale. Ad un primo sguardo, la storia appare come l’inanellarsi di una serie di fatalità, una dietro l’altra. Ma grattando appena la superficie, emerge un chiaro quadro di fallimento delle istituzioni, in primis quelle scolastiche. E, a distanza di due anni, molte domande rimangono ancora senza risposta.

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L’Istituto Golgi di Brescia

«Io non posso negare che mio figlio fosse un bambino difficile. Lo chiamo sempre bambino, anche se aveva 16 anni, perché il suo problema di autismo faceva sì che non ne dimostrasse più di 9 o 10». Amina, la madre di Yassine, da due anni combatte perché la verità su suo figlio venga a galla. È lei a raccontare per filo e per segno, con voce a tratti incrinata dal pianto, cosa è successo quella mattina del 24 novembre 2021. «Lui ha solo chiesto di andare a casa» racconta, «non era in preda a una crisi che non riuscivano a gestire. Pensavano di poterlo convincere a restare, ma non è stato così». Quando riceve la chiamata dalla scuola, Amina è tranquilla. Conosce suo figlio, sa che ogni tanto può avere dei momenti difficili, ma la scuola è molto vicina a casa e l’insegnante di sostegno aveva già chiamato il taxi, un servizio offerto dal Comune di Brescia che si occupa di portare Yassine a scuola al mattino e poi riportarlo a casa. Per questo rimane spiazzata quando, pochi secondi dopo aver chiuso la telefonata con l’insegnante, riceve una chiamata da un bidello: deve venire a scuola il prima possibile, ci sono dei poliziotti con suo figlio. «Non mi ha preoccupata quella frase: mio figlio era minorenne e invalido, ho immaginato che fossero lì per aiutarlo, per proteggerlo. Ma avevo una strana sensazione, sentivo che qualcosa non andava».

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L’ingresso dell’Istituto Golgi

Dalla chiamata all’arrivo a scuola passano meno di 20 minuti. «Appena siamo arrivati ho visto due volanti della polizia con le luci che lampeggiavano e ho sentito mio figlio gridare il mio nome. Ho fatto un balzo, prima ancora che mio marito parcheggiasse la macchina, e mi sono precipitata dentro il cortile della scuola. Lì ho visto la dirigente che chiacchierava con gli altri insegnanti, stavano ridendo. E mio figlio lì come una bestia, a quattro zampe, con quattro o cinque poliziotti intorno, che gridava e chiamava il mio nome. Mi sono precipitata da lui, buttandomi in terra, e l’ho abbracciato. Aveva i polsi ammanettati e i piedi legati con un laccio, come un criminale. Gli stavano tenendo la testa premuta verso il basso, probabilmente perché stava cercando di alzarsi. Mi hanno detto di allontanarmi, di portare via la bambina perché era pericoloso, e ho urlato che era mio figlio». A quel punto, i poliziotti decidono di togliergli le manette. Successivamente, racconta la donna, l’insegnante di sostegno sosterrà che i poliziotti sono intervenuti per ammanettarlo dopo averlo visto tirarle i capelli. Nessuno sa chi abbia chiamato le forze dell’ordine: forse un passante, pensando a una rissa. Resta il fatto che, per entrare nel perimetro della scuola, gli agenti dovevano comunque avere il benestare della dirigente, Daniela Gorgaini. «Mio marito ha chiesto più volte alla dirigente perché lo avessero ridotto in quel modo, tanto più sapendo che era invalido. La sua risposta è stata: ‘Sto proteggendo la mia scuola’. Ma Yassine non era parte della scuola?». L’ambulanza, la quale avrebbe dovuto forse essere chiamata nell’istante in cui Yassine aveva messo piede fuori da scuola, arriva quando ormai Amina è riuscita a calmare il figlio. «A quel punto lui non voleva essere toccato da nessuno, e io nemmeno volevo lo toccassero. Ho deciso di portarlo a casa e di ritirarlo completamente da scuola».

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Da quel giorno, intorno alla famiglia di Yassine si solleva un muro impenetrabile. La scuola taglia completamente ogni contatto e, secondo quanto riferito da Amina, la preside non incontra mai i genitori per dare spiegazioni riguardo quanto accaduto. Viene fissato un unico incontro per il 21 dicembre successivo (ad un mese da quanto accaduto a scuola), ma la situazione precipita prima che questo possa avere luogo. La salute mentale di Yassine risulta infatti gravemente compromessa a seguito di quanto accaduto. Amina riferisce che il figlio non riconosce più nessuno se non lei, nemmeno il padre e i fratelli. Le settimane proseguono così, in una spirale di ricoveri e fughe da casa per cercare la madre quando lei si assenta, fino a che in pronto soccorso non gli vengono prescritti dei nuovi medicinali, sedativi e antipsicotici. «Non mi hanno detto che questi farmaci potevano causare allucinazioni» racconta Amina in lacrime. In realtà, non è chiaro cosa sia passato nella mente di Yassine quando, la sera del 19 dicembre, si è diretto verso la finestra di casa. «Era convinto fosse la porta, era evidentemente confuso» racconta la madre. Fatto sta che il ragazzo si sporge troppo e cade. Morirà poco dopo il ricovero in ospedale.

A distanza di due anni da quanto accaduto, ancora non è stata fatta chiarezza e a livello giudiziario è tutto fermo. Nonostante la scuola abbia sede in un edificio alquanto moderno, dotato di un sofisticato impianto di telecamere e videosorveglianza, agli avvocati della famiglia viene detto che proprio quel giorno le telecamere esterne risultavano fuori uso. Impossibile, dunque, accertare la dinamica dei fatti che hanno portato all’immobilizzazione di un minorenne disabile all’interno della scuola. Per ben due volte, inoltre, la Procura di Brescia smarrisce misteriosamente la documentazione che doveva essere consegnata a Lisa Saccaro, la pm incaricata del caso dopo che la famiglia ha denunciato la scuola, causando un notevole ritardo nelle indagini.

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I genitori di Yassine, Sami e Amina, e la loro figlia più piccola

Quello che emerge da tutta questa storia è un dato chiaro: il completo disinteresse, da parte delle istituzioni, nei confronti delle fasce più deboli della popolazione. Noi stessi ci siamo scontrati con questo muro, cercando di andare più a fondo nella vicenda. Abbiamo cercato di contattare più e più volte la dirigente scolastica per chiedere che fornisse una sua versione dei fatti, ma si è resa irreperibile a ogni tentativo. Per di più, quando ci siamo recati a scuola per chiedere un colloquio (senza successo), alcuni membri del personale scolastico hanno persino cercato di negare in tutti i modi che fosse lei la preside in carica nel novembre 2021. Nessuno si ricordava di Yassine o sembrava a conoscenza di quanto accaduto. Nemmeno la psichiatra che aveva in cura il ragazzo – la quale, secondo quanto riferito da Amina, non aveva prestato sufficiente attenzione alle conseguenze su Yassine del trauma subito – si è detta interessata a parlare con noi.

«Quello che vorrei che si capisse» mi dice Amina «è che nessuno si aspettava che mio figlio potesse fare una cosa del genere prima dell’incidente a scuola». Una versione che viene confermata anche da chi abitualmente frequentava la famiglia. «Yassine doveva essere secondo me attenzionato di più dalla neuropsichiatria infantile e ricoverato all’ospedale, soprattutto per l’ultimo episodio accaduto» ha dichiarato Elisabetta, persona molto vicina alla famiglia. «La sua situazione è molto peggiorata dopo quell’episodio a scuola. E la famiglia è stata lasciata sola. Nelle settimane successive è finito diverse volte al pronto soccorso per delle crisi, ma non lo hanno preso in carico perché non c’era posto. Nessuno si è disturbato a chiamare gli ospedali vicini o a trovare una soluzione, perché Yassine non poteva rimanere a casa in quello stato. Ma nessuno ha fatto niente. Lo hanno rimandato a casa, peraltro con dei farmaci nuovi, e la famiglia è rimasta sola».

Quello che la famiglia chiede, ad oggi, sono risposte. Che qualcuno parli con loro e spieghi perché il loro figlio invalido e minorenne abbia subito un trattamento simile mentre si trovava a scuola, affidato a professionisti che avrebbero dovuto essere ben preparati e in grado di gestire le sue problematiche, diagnosticate da tempo e note a tutti. Perché è stato permesso l’intervento della polizia e non si è chiamata immediatamente un’ambulanza, lasciando che fosse il personale sanitario a prendersi cura di Yassine. Perché la preside si sia rifiutata di incontrare la famiglia e perché nessuno abbia sollevato domande quando Yassine è stato ritirato da scuola. Perché una famiglia con un figlio affetto da gravissimi disturbi mentali sia lasciata sola anche dalle istituzioni sanitarie, che se ne sono lavate le mani dopo aver firmato la ricetta per qualche pillola.

È importante che a queste domande vengano date risposte, per non far sì che storie di tale straordinaria gravità non vengano normalizzate come violenza ordinaria.

[di Valeria Casolaro e Iris Paganessi]