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Un attivista russo rischia il carcere per aver “screditato” l’esercito di Putin

Oleg Orlov, biologo e politico russo, noto soprattutto per il suo attivismo nella difesa dei diritti umani e membro del Memorial Human Rights Center, un’organizzazione premiata nel 2022 con il Nobel per la Pace, rischia tre anni di carcere perché accusato di aver “ripetutamente screditato le forze armate russe”. Considerato uno dei maggiori oppositori del totalitarismo sovietico, Orlov è finito nei guai per via di un articolo che ha scritto per denunciare e accusare la Russia di aver scatenato il conflitto contro l’Ucraina, e di essersi così rivelata una nazione fascista. Come ha dichiarato [1] lui stesso alla BBC, «ho scritto un articolo presentando la mia valutazione degli eventi. Perseguirmi per questo viola la Costituzione, visto che questa garantisce all’articolo 29 la libertà di parola. Almeno su carta». A suo dire «affermare che la guerra in Ucraina è nell’interesse della pace internazionale è solo una sciocchezza». In generale, nel testo dell’articolo, Orlov scrive che la guerra scatenata dal regime di Putin in Ucraina «non sia solo l’assassinio di massa degli abitanti e la distruzione delle infrastrutture, dell’economia e della cultura dell’Ucraina, ma un duro colpo al futuro della Russia».

Dichiarazioni che, in questo momento storico e nella Russia di Putin pesano come un macigno sulle spalle di chi le pronuncia. Negli ultimi mesi le autorità russe, infatti, hanno messo insieme una serie di leggi repressive spesso utilizzate proprio per mettere a tacere il dissenso. Il codice penale può ad esempio punire chi scredita l’esercito, come nel caso di Orlov, ma anche chi è colpevole di “diffusione pubblica di informazioni deliberatamente false sull’uso delle forze armate russe”. Accuse per cui dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina – nel febbraio del 2022 – , migliaia i russi sono stati perseguiti e condannati.

Proprio in queste ore un tribunale russo di Ufa, la capitale della Repubblica di Baschiria, ha condannato l’attivista Lilia Chanysheva, ex leader della campagna presidenziale di Alexey Navalny in Bashkortostan, a 7 anni e sei mesi di carcere per “aver creato un’organizzazione estremista”.

La stessa sorte è toccata a Vladimir Kara-Murza, storico, giornalista e attivista anti-Putin, condannato lo scorso aprile a 25 anni di carcere in un penitenziario di massima sicurezza perché ritenuto colpevole di tradimento, “diffusione di informazioni consapevolmente false sulle azioni delle forze armate russe e collaborazione con un’organizzazione ‘indesiderabile’ in Russia”.

Episodi di repressione e soffocamento del dissenso si sono verificate anche dall’altra parte, sul fronte ucraino. Per citarne uno che ci riguarda da vicino, ricordiamo quanto accaduto il 6 febbraio scorso, quando il Ministero della Difesa di Kiev ha sospeso gli accrediti [10] stampa ad Andrea Sceresini e Alfredo Bosco, due giornalisti italiani che seguono il conflitto nel Donbass dal 2014. I due freelance che lavorano per le principali testate mainstream italiane erano appena stati al fronte di Bakhmut a realizzare un reportage per il Tg3. Ai due giornalisti è bastato essere segnalati da alcuni fixer (consulenti locali che lavorano come traduttori e accompagnatori di giornalisti stranieri) come “collaboratori del nemico” per vedersi ritirare i permessi dal Ministero della Difesa ucraino. Sceresini e Bosco, che hanno vissuto rinchiusi per un lungo periodo, nell’impossibilità di muoversi in territorio ucraino per via del rischio di arresto, dopo 19 giorni in attesa di spiegazioni ufficiali mai arrivate hanno deciso di lasciare il Paese [11]. Un caso di censura non isolato che si inserisce, invece, in un quadro più ampio, quello della blacklist dell’intelligence ucraina. Della sua esistenza ne ha parlato Salvatore Garzillo, giornalista italiano a cui il 14 febbraio è stato negato l’accesso nel Paese perché presente nell’elenco e dunque considerata “persona non gradita”. In realtà, la “colpa” dei due reporter, e di chi come loro, stando a quanto riferito dalla Farnesina, sarebbe quella di «aver raccontato il conflitto su entrambi i fronti», provando a dare dunque una visione quanto più globale e imparziale possibile di quanto sta accadendo.

[di Gloria Ferrari]