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Processo Attanasio: all’Italia non interessa la verità sulla morte di un suo servitore?

Mancano ormai pochissimi giorni all’udienza preliminare del procedimento italiano sull’omicidio di Luca Attanasio, l’ambasciatore lombardo che, il 22 febbraio 2021, fu ucciso in Congo insieme a Vittorio Iacovacci, carabiniere della sua scorta, e a Mustapha Milambo, autista locale del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (PAM), durante un trasferimento a bordo di un convoglio umanitario. In quella sede si dovrà decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio formulata dai pubblici ministeri di Roma a carico di due funzionari del PAM, Rocco Leone (vicedirettore n Congo con funzioni di direttore) e Mansour Rwagaza (addetto alla sicurezza), accusati di omicidio colposo e omesse cautele nella cornice del pluriomicidio. Eppure, nonostante la data limite sia quella di giovedì 25 maggio, il governo italiano non ha ancora dato mandato all’Avvocatura dello Stato per costituirsi parte civile al processo. Un fatto che, destando grande perplessità, stimola molti interrogativi.

La causa di questa titubanza è, probabilmente, del tutto diplomatica. All’epoca dell’iscrizione nel registro degli indagati dei funzionari da parte dei pm, infatti, la Fao (’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) – istituto dell’Onu di cui la PAM è un’articolazione – aveva sollevato un problema di immunità, rivendicata a livello mondiale per tutti i suoi funzionari. Una questione che ora, dopo che la Procura di Roma ha accusato Leone e Rwagaza del reato di omicidio colposo poiché, “in violazione dei comuni doveri loro imposti dai protocolli di sicurezza dell’ONU e del PAM”, avrebbero “contribuito e comunque facilitato” l’azione dei sequestratori – poi divenuti assassini – con false dichiarazioni o omissioni, sembra pesare molto sulla (mancata) azione dell’Esecutivo.

In una nota inviata nel luglio 2021 al Comando dei carabinieri del ministero degli Affari esteri, la FAO aveva infatti parlato di un “grave incidente” in riferimento a quanto avvenuto l’8 giugno 2021 a Roma, quando uno dei due funzionari era stato convocato come persona informata sui fatti dai magistrati e, dopo l’interrogatorio, la sua posizione si era tramutata in quella di indagato. “L’organizzazione ha l’onore di richiamare lo status giuridico del PAM quale organo congiunto e sussidiario della FAO e le Nazioni Unite, i privilegi e immunità che il programma e i propri funzionari godono”, riporta il contenuto della nota, in cui si affermava inoltre che il PAM aveva acconsentito a che il dipendente “venisse sentito esclusivamente sulla base di una cooperazione volontaria e senza pregiudizio alcune a dette immunità”. Si esprimeva, dunque, una “seria preoccupazione” per l’iniziativa intrapresa dalla Procura, che, secondo FAO, si sarebbe posta “in evidente violazione degli accordi fra il PAM e le autorità italiane”, rischiando di “nuocere a una lunga e positiva tradizione di cooperazione e sostegno reciproco fra FAO, PAM e governo italiano”.

Nel frattempo, un mese e mezzo fa il tribunale militare congolese di Kinshasa ha condannato [1] all’ergastolo sei presunti esecutori materiali dell’assassinio, presentati come parte di una banda di sequestratori. I condannati hanno negato ogni accusa, sostenendo di essere stati sottoposti a tortura dalle autorità dopo l’arresto. All’Italia, che in quel caso ha scelto di costituirsi parte civile, andranno due milioni di dollari in “via equitativa”, ossia a carico dei condannati.

Il reale movente della morte di Attanasio e Iacovacci resta, a due anni di distanza, ancora avvolto nel mistero. Poche ore dopo l’eccidio, le autorità congolesi accusarono dell’imboscata un gruppo di ribelli hutu ruandesi, le FDLR (Forces Démocratiques de Libération du Rwanda), che negarono di essere implicati nel pluriomicidio, chiamando invece in causa la banda dei ribelli tutsi. Un’altra ipotesi investigativa ad opera dei missionari comboniani ha invece inquadrato [2] come responsabile dell’eccidio il colonnello Jean Claude Rusimbi, il cui mandante sarebbe stato il presidente del Ruanda Paul Kagame, poiché Attanasio, che sarebbe stato “in possesso di informazioni scomode sui massacri nella zona”, avrebbe voluto indagare sui fondi per gli aiuti umanitari “non raramente dirottati su altre finalità da ONG e organizzazioni internazionali”.

«Ricordare Luca Attanasio e Vittorio Iacovacci non è solo un dovere istituzionale, ma un atto di giustizia e di amore. Verso le loro famiglie […] che possono contare sul sostegno delle Istituzioni per conoscere la verità su quei tragici fatti. Verso la nostra Nazione, che con orgoglio può rendere omaggio al sacrificio di due servitori dello Stato…», affermava la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni il 22 febbraio scorso, in occasione del secondo anniversario della morte dell’ambasciatore e del carabiniere. Ora capiremo se il governo sarà davvero intenzionato a sostenere gli avvocati e i parenti delle vittime nella cornice di un procedimento più “scomodo” rispetto a quello che, a Kinshasa, ha punito solo piccoli esponenti di bande criminali.

«Abbiamo parlato con funzionari della Presidenza del Consiglio a cui abbiamo presentato le nostre richieste sia per la costituzione di parte civile sia per la non validità dell’immunità per i due funzionari del PAM: ci era stato assicurato un interessamento, ma ad oggi stiamo ancora aspettando risposte concrete – ha riferito in un’intervista Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore ucciso -. Sono più importanti le relazioni con le Nazioni Unite o l’onore di un Paese che deve pretendere verità e giustizia per i suoi caduti e per la loro memoria? Lo Stato deve far vedere da che parte sta».

[di Stefano Baudino]