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I PM fanno ricorso: “Prove del coinvolgimento dello Stato nell’omicidio Borsellino”

Il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio è stato consumato da uomini delle istituzioni per non disvelare il ruolo di ambienti esterni a Cosa Nostra “nella ideazione e nella esecuzione” dell’attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e ai membri della sua scorta. Lo mettono nero su bianco il Procuratore di Caltanissetta, Salvatore De Luca, e il sostituto Maurizio Bonaccorso nei motivi di appello alla sentenza di primo grado al processo “depistaggio Borsellino”, che lo scorso luglio ha dichiarato [1] prescritto il reato di calunnia aggravato contestato ai poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei e ha assolto un altro funzionario imputato, Michele Ribaudo. La prescrizione è scattata perché l’aggravante di avere agevolato Cosa Nostra non era stata confermata dalla Corte d’Assise.

L’attenzione dei magistrati si concentra sulla figura dell’ex questore di Palermo Arnaldo La Barbera – all’epoca dei fatti capo del pool di poliziotti in cui operavano Bo, Mattei e Ribaudo -, deceduto nel 2002. La Barbera è già stato inquadrato dal processo Borsellino Quater come il principale protagonista di “uno dei più gravi depistaggi della storia italiana“, che ruotò attorno al furto dell’agenda rossa del giudice palermitano, sottratta lo stesso pomeriggio del 19 luglio 1992 dal teatro della strage, e dalla successiva “costruzione” di alcuni finti pentiti. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, che pure ha aperto scenari [2] importanti sul tema delle cointeressenze tra Cosa Nostra ed ambienti esterni in riferimento alla strage di via D’Amelio, il Tribunale aveva affermato che gli elementi probatori fino ad allora esaminati “non consentono di ritenere – al di là di ogni dubbio ragionevole – che Arnaldo La Barbera fosse concorrente esterno all’associazione mafiosa o che l’abbia agevolata favorendo il perdurare dell’occultamento delle convergenze dell’associazione con soggetti o gruppi di potere cointeressati all’eliminazione di Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta». Ma tale ricostruzione non ha convinto la Procura Nissena, che ora passa al contrattacco.

“I comportamenti tenuti dal dirigente della Squadra mobile” Arnaldo La Barbera, secondo i pm di Caltanissetta, risultano infatti “eccessivamente sospetti e inducono ragionevolmente a ipotizzare un ruolo del dottor La Barbera per la sottrazione dell’agenda rossa. Se realmente la spinta psicologica del dottor La Barbera nell’azione illecita che ha portato alla creazione di tre falsi collaboratori di giustizia – continuano i magistrati – fosse stata soltanto quella di ‘potere mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della Polizia di Stato’, come ritiene il Tribunale, allora si sarebbe dovuto assistere a iniziative e comportamenti totalmente diversi, con sforzi investigativi orientati a cercare di fare luce anche sul mistero dell’agenda rossa”. Per la Procura, “la chiave di lettura alle incomprensibili condotte e reazioni del dottor La Barbera su questa specifica vicenda allora non può essere altra che quella del mantenimento delle indagini all’interno del ‘perimetro’ mafioso della strage”.

Nell’appello, i magistrati nisseni delineano un quadro che, se troverà conferma in sede processuale, porterebbe a riscrivere la storia recente del nostro Paese: “La valutazione complessiva degli elementi – scrivono i pm – non lascia dubbio sulla esistenza di cointeressenze con centri di potere esterni alla mafia nella deliberazione della strage di via D’Amelio e nella successiva partecipazione alle fasi esecutive di appartenenti ad apparati istituzionali“.

Prove ne sarebbero la “tempistica della strage che non coincide con gli interessi della consorteria mafiosa” e “la strana presenza di appartenenti al servizio di sicurezza attorno alla vettura blindata del magistrato negli attimi immediatamente successivi all’esplosione”. Secondo la Procura, il depistaggio sarebbe stato volto proprio a celare tale spaccato: “Il movente della sottrazione di un reperto così importante” come l’agenda rossa di Paolo Borsellino “da parte di soggetti che per funzioni svolte erano legittimati ad intervenire e operare sul luogo della strage e quindi esterni alla consorteria mafiosa – scrivono i pm nell’appello – non può essere altro che quello di sviare le indagini, nel senso di impedire che le investigazioni potessero fuoriuscire dal perimetro delimitato dalla matrice esclusivamente mafiosa dell’attentato di via D’Amelio”.

Rispetto alla “gestione” dei finti pentiti da parte dei poliziotti, i pm sostengono che le risultanze probatorie del processo sul depistaggio “hanno consentito di acclarare con assoluta certezza episodi di indottrinamento posti in essere da Arnaldo La Barbera e da Mario Bo” nei confronti dei collaboratori Francesco Andriotta e del più noto Vincenzo Scarantino. Il gran numero di colloqui intrattenuti dalla polizia con i finti pentiti manifestano infatti, secondo la Procura, “un costante modus operandi del dottor La Barbera e dei suoi fedelissimi funzionari caratterizzati dall’uso dei colloqui investigativi e degli accessi in strutture carcerarie per istruire i falsi collaboratori“.

Il processo – uno dei più importanti tra quelli in corso sullo spaccato delle presunte contiguità tra mafia ed ambienti istituzionali – resta ancora apertissimo. La battaglia in vista del giudizio di Appello ha ufficialmente avuto inizio.

[di Stefano Baudino]