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Così imprenditori e ‘ndranghetisti erano al servizio di Matteo Messina Denaro

Interrogato davanti ai magistrati un mese dopo l’arresto, lo scorso 16 febbraio, Matteo Messina Denaro ha fatto lo “gnorri”. Ha sostenuto di non aver mai fatto parte di Cosa Nostra, di saperne qualcosa solo perché «letto sui giornali», e di non aver avuto mai alcuno dei soprannomi che hanno accompagnato il suo personaggio, che gli sarebbero invece stati «attaccati dai giornalisti» quando era latitante. Una narrazione in perfetto stile mafioso, che pare un copia e incolla delle dichiarazioni del suo mentore Totò Riina davanti ai giudici negli anni Novanta. Eppure, nell’occasione qualche dettaglio sulle sue strategie finanziarie Messina Denaro se lo fa scappare. E, in contemporanea, le indagini continuano, svelando elementi importanti sulle protezioni di cui “U Siccu” avrebbe goduto prima della cattura.

«Mi chiamo Matteo Messina Denaro, lavoravo in campagna ed ero un agricoltore». Queste le prime parole [1] messe a verbale dal boss, che davanti al gip Alfredo Montalto e ai sostituti procuratori Gianluca De Leo e Giovanni Antoci si considera «un apolide», non avendo una residenza ufficiale «da tanto tempo». I magistrati gli chiedono se possegga dei beni. Il boss diventa ironico e dice: «Li avevo, ma me li avete tolti tutti, se qualcosa ho, non lo dico, sarebbe da stupidi».

Le cronache ci raccontano che, durante gli anni della latitanza, molti beni del capomafia e decine di suoi prestanome sono stati scoperti dagli inquirenti. Ingenti i sequestri: un miliardo e mezzo era stato tolto all’imprenditore “re dell’eolico” Vito Nicastri; un altro miliardo e mezzo a Carmelo Patti, patron dell’ex Valtur, cui la Dia ha confiscato decine di società, villaggi turistici, appezzamenti di terreno, immobili e disponibilità bancarie; 700 milioni a Giuseppe Grigoli, che gestiva una quarantina di supermercati tra Trapani ed Agrigento; 500 milioni a Rosario Cascio, considerato “l’interfaccia economico di Matteo Messina Denaro”, nel settore dell’edilizia. In totale, la quota riconducibile al mafioso di Castelvetrano ammonta a oltre 4 miliardi.

Dai pizzini [2], si è scoperto che ogni anno Messina Denaro appuntava un’entrata fissa di circa 20mila euro. Per provare a comprendere da dove provenissero, si può forse fare riferimento a una «prassi» riferita proprio dal boss nel corso dell’interrogatorio. Il meccanismo è lineare: «nel momento in cui avrei deciso che avevo bisogno io, lo facevo sapere»; il finto proprietario del bene «lo vendeva e mi mandava i soldi»; ma «prima se li metteva in banca e poi, a poco a poco, li prendeva», racconta il boss.

Nel frattempo, importanti risultanze investigative fanno ulteriore luce sulle entrature del padrino al di fuori degli ambienti di Cosa Nostra. Dagli ultimi elementi raccolti dagli investigatori, è infatti emerso che il teatro dell’ultima fase della latitanza del boss prima del suo approdo a Campobello di Mazara è stata la Calabria. Messina Denaro avrebbe trovato rifugio tra le città di Lamezia Terme e Cosenza, protetto dalla ‘ndrangheta, dove poté seguire affari legati alla droga, al business dell’eolico e alla realizzazione di un villaggio turistico. «Dice che Matteo era in Calabria ed è tornato…», rivela [3] il boss di Partanna Nicola Accardo ad un altro “punciuto”, Antonino Triolo, il 3 settembre del 2016. I due mafiosi, intercettati dagli inquirenti, parlano proprio degli spostamenti di Matteo Messina Denaro.

Solo pochi mesi fa, si sono aperte le porte del carcere per Antonino D’Alì, ex senatore di Forza Italia e sottosegretario all’Interno condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, il quale strinse [4] numerosi patti politico-mafiosi con Cosa Nostra e favorì Messina Denaro e altri esponenti illustri dell’organizzazione.

Lo scorso marzo, nell’ordinanza di custodia cautelare per la sorella del boss di Castelvetrano, Rosalia, che curò la latitanza del fratello e agì al suo servizio come “messaggera”, il gip di Palermo Saverio Montalto aveva invece fatto riferimento [5] ai favori che il boss avrebbe ricevuto prima dell’arresto da parte di “talpe” delle forze dell’ordine o di “tecnici esperti”. Lo stesso gip fa riferimento a “canali tutti da investigare“. L’impressione è che questi “canali” siano numerosi e variegati. E che le indagini sul network che ha curato, sostenuto e protetto la latitanza di Matteo Messina Denaro proseguiranno ancora per molto tempo.

[di Stefano Baudino]