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La mafia è digitale: così la criminalità prolifera sui social network

Le mafie, estremamente abili a trovare metodi all’avanguardia per pubblicizzarsi e comunicare nel mondo digitale, sono sempre più “influencers” della rete. È quanto spiega il nuovo report della Fondazione Magna Grecia, presieduta da Nino Foti, a cura di Marcello Ravveduto (professore di Digital Public History dell’Università di Salerno), in cui sono stati analizzati di 90 GB di video TikTok, due milioni e mezzo di tweet, 20mila commenti a video YouTube e centinaia fra profili e pagine di Facebook e Instagram.

Per fotografare i nuovi linguaggi delle mafie sui social, il rapporto [1] indaga il materiale postato sulle varie piattaforme da affiliati e supporters delle organizzazioni mafiose, la “mitizzazione” digitale dei vecchi boss del passato da parte di giovani membri della malavita, ma anche l’universo della musica trap e neomelodica popolarissima in rete – che si rifà all’immaginario criminale e spesso agli ambienti mafiosi – nonché le reactions degli utenti di fronte a tali contenuti. Il quadro che emerge è quello di un immaginario che si alimenta in maniera circolare.

In particolare, la relazione inserisce la nozione di “mafie subdigitali“, per rimarcare l’attitudine delle organizzazioni criminali a proliferare online facendo leva, indirettamente, su “stimoli visivi, sonori e comportamentali familiari a chi usa i social”. Pur essendo spesso troppo deboli per essere avvertiti e decodificati a livello conscio, essi sono infatti sufficienti ad influenzare la mentalità di un vasto numero di soggetti grazie al loro appeal. Sulla scia della logica dell‘influencing, proprio grazie a questo approccio, si riesce infatti a diventare virali e dunque famosi, incrementando followers e attraendo il pubblico delle giovani generazioni, propense all’emulazione di modelli considerati “vincenti”. La dimensione è quella dell'”interreale“, in un continuo scambio tra vita reale e virtuale.

Da questo punto di vista, un ruolo d’eccellenza lo giocano giovani artisti che utilizzano il mezzo musicale per lanciare messaggi apertamente criminali o che “strizzano l’occhio” agli ambienti malavitosi. Per quanto riguarda Youtube, il rapporto analizza una vasta gamma di video musicali riferiti a canzoni che inneggiano alla malavita e agli “uomini d’onore”, da cui emerge un disprezzo esplicito per “sbirri” e “infami”. Quasi tutti questi brani sono inseriti nei generi della trap e del neomelodico, come testimoniano i casi celebri dei cantanti Niko Pandetta (nipote del boss Turi Cappello, recluso al 41-bis) e Daniele De Martino, le cui canzoni, secondo il questore di Latina che l’anno scorso bloccò un suo concerto, «veicolano messaggi espliciti contro i collaboratori di giustizia e sono espressione di solidarietà al sistema delle mafie». I video, molto d’impatto e pregni di un’estetica volta all’ostentazione del lusso, celebrano la “legge dell’omertà” e una vita notturna sfrenata.

Musica, immagine e scalata per la celebrità sono elementi inscindibili: i medesimi artisti sono seguitissimi, in particolare, su Instagram e Tik Tok, che si confermano come le principali piattaforme “orientate alla promozione/celebrazione” di uno stile di vita “associabile all’immaginario delle mafie“, con alcune differenze: se Instagram si è consolidato come “il palcoscenico per chi vuole sfoggiare il lusso”, TikTok è diventato “il
regno delle performance autoesaltanti e celebrative”. Dallo studio dei contenuti presenti sul social cinese – in assoluto il più popolare tra i giovanissimi – emergono numerosi filoni molto significativi, portati avanti dai simpatizzanti della cerchia criminale. Vi è, ad esempio, quello commemorativo per gli affiliati morti, quello celebrativo per chi si trova in galera o ha un ruolo di vertice nelle gerarchie del clan, quello “propagandistico” e denigratorio nei confronti dei rivali.

Tra le varie associazioni mafiose, ad oggi la Camorra sembra essere la maggiore
produttrice di contenuti sulla piattaforma, all’interno della quale utilizza sigle in codice veicolate tramite hashtag. Una delle più celebri è #ES17, che rimanda ad Emanuele Sibillo, capo della paranza dei bambini, ucciso giovanissimo nel 2015. Il 17 è la cifra che corrisponde alla lettera S, nonché il tatuaggio che il baby boss aveva sul petto. Il ragazzo è divenuto vero e proprio oggetto di culto attraverso murales e altarini e, con l’avvento dei social, la sua mitizzazione è stata trasferita nel digitale. Le sue citazioni, spesso ricondivise da ragazze che lo venerano come eroe di romanticismo, sono funzionati ad esaltare il coraggio e lo stile di vita dei giovani affiliati alla Camorra. Oltre alla criminalità campana, sul social spicca l’attività dei Casamonica e di alcune fazioni della mafia foggiana.

Il rapporto è stato presentato dalla Fondazione in occasione di una conferenza [2] alla Camera dei Deputati, dov’è intervenuto anche il Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. «Le mafie mutano col mutare sociale, ci somigliano sempre più, vivono tra di noi – ha detto il magistrato a margine dell’incontro -. Per esistere hanno bisogno di pubblicità e, mentre venti o trent’anni fa si facevano vedere in processione a portare i santi, ristrutturavano le chiese o sponsorizzavano le squadre di calcio, oggi i figli dei capimafia si fanno vedere sui social vestiti in modo sfarzoso e luccicante per dimostrare che quello è il potere, quella è la ricchezza». Ciò serve, ha concluso, «perché nuovi garzoni si facciano irretire ed arruolare».

[di Stefano Baudino]