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La politica italiana torna al suo gioco preferito: discutere di riforme costituzionali

Ci risiamo. Dopo gli anni del renzismo, con le sue (fallite) spinte accentratrici e iper-governiste, ecco che ai primissimi posti dell’agenda politica italiana ritornano loro: le riforme costituzionali. La premier Giorgia Meloni ha infatti deciso di riunire alla Camera i leader e i delegati dei partiti di opposizione per far partire il progetto di modifica della Carta. Tra i nodi principali, l’elezione diretta del Presidente della Repubblica o del Presidente del Consiglio, storico obiettivo dei partiti della coalizione che ha vinto le elezioni. Un’idea che, però, non dispiace affatto ai camaleontici centristi di Renzi, che tornano a sognare ad occhi aperti e a riprendere battaglie lasciate a metà strada.

Mentre il Paese affonda nel dramma dell’ondata migratoria, di un’evasione fiscale alle stelle e di una povertà sempre più diffusa e pervasiva, il primo pensiero del governo è quello di riformare l’impianto istituzionale del Paese. La premier e la ministra per le Riforme Maria Elisabetta Casellati, insieme ad una rappresentanza dell’Esecutivo, si stanno confrontando [1] proprio in queste ore a Montecitorio con le forze di minoranza al fine di tastare un possibile terreno comune sul contenuto delle riforme e sui binari da seguire per la loro eventuale approvazione.

Ad ogni modo, il governo sembra intenzionato a premere sull’acceleratore anche in caso di veto da parte delle opposizioni. «Basta con i governi non eletti, le riforme sono parte del nostro programma – ha dichiarato il vicepresidente del Consiglio forzista Antonio Tajani. – Se l’opposizione sceglierà l’Aventino, andremo avanti anche da soli. Poi ci saranno i referendum e decideranno i cittadini». Tanti gli ingredienti sul piatto, nella cornice di un confronto che si preannuncia in salita. Al “minestrone perfetto” contribuiscono pressoché tutti i partiti, che avanzano proposte alternative.

Meloni si è sempre detta favorevole al Presidenzialismo – ovvero all’elezione diretta del Presidente della Repubblica – che peraltro costituisce una delle voci del programma [2] presentato da Fdi all’ultima tornata elettorale. In alternativa, sarebbe pronta a virare sul cosiddetto Premierato, al fine di garantire più poteri al Presidente del Consiglio, che oggi in Italia non viene eletto direttamente dal popolo e non ha la possibilità di revocare i ministri.

Obiettivo primario della Lega, che da programma andrà “associato” al presidenzialismo, è quello della cara vecchia autonomia, che nei piani del Carroccio dovrà contemplare “il massimo decentramento possibile”. Se il programma elettorale di Forza Italia riporta l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, in questa fase il partito sembra propenso a considerare il Premierato come scelta preferibile, nell’ottica di un più ampio consenso parlamentare.

Difatti, in soccorso al governo potrebbe arrivare l’onnipresente Matteo Renzi, leader di Italia Viva, il quale punta tutto su «monocameralismo» e «Sindaco d’Italia». In un’intervista a La Stampa, l’ex Presidente del Consiglio ha dichiarato [3]: «Io dico alla Meloni: vai avanti, noi sul Premierato ci stiamo anche se non ci stanno gli altri e saremo corretti con voi a differenza di quanto fece la destra con le nostre riforme». Anche Carlo Calenda, leader di Azione, si dice favorevole al rafforzamento dei poteri del premier e alla fine del bicameralismo.

La parola magica per il Pd di Elly Schlein è, invece, “Cancellierato“, un’opzione che si sostanzierebbe nella sfiducia costruttiva – istituto che impedisce al Parlamento di sfiduciare un governo in carica se simultaneamente non concede la fiducia a un altro Esecutivo – e nel potere di nomina dei ministri da parte del premier (che oggi vengono invece nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio). Sulla stessa linea il M5S di Giuseppe Conte, che ha attaccato la maggioranza sulla prospettiva dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio, che ridimensionerebbe i “contrappesi” costituzionali: «Con un capo del governo eletto dai cittadini – ha detto [4] l’ex premier – il capo dello Stato diventerebbe una figura che taglia i nastri alle cerimonie».

Insomma, dopo i grandi fallimenti delle bicamerali guidate da Bozzi negli anni Ottanta, da De Mita e Iotti nell’era di “Mani Pulite” e da D’Alema alla fine degli anni Novanta, nonché del referendum berlusconiano del 2006 e di quello renziano del 2016, la politica italiana torna a ripiegarsi su se stessa, progettando nuovamente modifiche alla forma di governo del Paese. Nel frattempo, l’opinione pubblica segue attonita le mosse di un sistema governativo e partitico che, piuttosto che badare ai bisogni primari dei cittadini, si mostra molto più propenso ad ampliare i suoi margini di manovra e a rafforzare la propria presa.

[di Stefano Baudino]