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La transizione verde non ferma lo sfruttamento delle terre indigene

I progetti per la transizione e l’energia pulita costituiscono una minaccia per i diritti dei popoli indigeni, che vengono tagliati fuori dalle politiche che riguardano l’estrazione e lo sfruttamento delle risorse. È questa la grande denuncia emersa in occasione del 22° Forum permanente delle Nazioni Unite sulle questioni indigene (UNPFII), il più grande raduno internazionale annuale di popoli indigeni, tenutosi [1] dal 17 al 28 aprile presso la sede ONU di New York.

Secondo il rapporto 2023 del Gruppo di lavoro internazionale per gli affari indigeni (IWGIA [2]), infatti, le popolazioni aborigene di tutto il mondo stanno subendo le conseguenze negative dei progetti di estrazione di energia pulita, delle compensazioni di carbonio, delle nuove aree protette e dei grandi progetti infrastrutturali sulle loro terre, nell’ambito degli sforzi di ripresa economica della fase post-pandemica. Si prevede che la domanda di minerali come il litio, il rame e il nichel, necessari per le batterie che alimentano la rivoluzione energetica, salirà in maniera vertiginosa nei prossimi anni, finendo per quadruplicarsi entro il 2040 e attirare investimenti minerari per 1.700 miliardi di dollari.

Attualmente, più della metà dei progetti di estrazione si trova nelle aree in cui vivono popolazioni indigene o contadine, oppure in zone ad esse limitrofe. Il forte rischio è che ciò possa produrre il loro sfratto dai territori, la perdita di mezzi di sussistenza, alla deforestazione e al degrado degli ecosistemi presenti in quelle zone.

Per questo motivo, i delegati hanno chiesto ai Paesi e alle imprese di creare linee guida vincolanti che richiedano la FPIC [3] – ovvero il consenso libero, preventivo e informato, che vincolante ancora non è – per tutti i progetti che interessano le popolazioni indigene e le loro terre, nonché rimedi finanziari, territoriali e materiali per i casi in cui le imprese e i Paesi non lo facciano. La FPIC permetterebbe loro infatti di dare o negare il consenso a un progetto che interessi il loro territorio, offrendogli la possibilità di negoziare le condizioni alle quali il progetto sarà concepito, attuato, monitorato e valutato: una volta prestato, il consenso può essere sempre revocato. L’obiettivo è quello dell’inclusione obbligatoria della FPIC negli standard internazionali come le Linee guida dell’OCSE per le imprese multinazionali, nonché di esercitare una maggiore pressione sui governi nazionali affinché attuino riforme politiche che includano la responsabilità.

«Ricevo costantemente informazioni sul fatto che i popoli indigeni temono una nuova ondata di investimenti verdi senza il riconoscimento dei loro diritti di proprietà, gestione e conoscenza della terra», ha dichiarato Calí Tzay, Relatore speciale del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni, che ha evidenziato come, senza la FPIC, l’attuazione delle politiche verdi può seriamente intralciare i diritti degli indigeni.

«L’azione per il clima e gli obiettivi per lo sviluppo sostenibile hanno un impatto sempre maggiore su di noi», ha dichiarato Joan Carling, direttore esecutivo di Indigenous Peoples Rights International, organizzazione no-profit indigena che lavora per proteggere i diritti dei popoli aborigeni in tutto il mondo. «Eppure […] non facciamo parte della discussione», ha detto Carling. «Per questo lo chiamo “colonialismo verde”: la transizione [energetica] senza il rispetto dei diritti degli indigeni è un’altra forma di colonialismo». A suo parere, la FPIC, di cui nel corso della conferenza si è evidenziato il ruolo crescente nel settore privato, costituirebbe l’elemento cruciale per la sostenibilità a lungo termine dei progetti energetici. Essa, infatti, non è solo una semplice «lista di controllo per le aziende che vogliono sviluppare progetti su terre indigene», ma un vero e proprio «quadro di riferimento per la partnership, che include opzioni per accordi di equa condivisione dei benefici o memorandum d’intesa, collaborazione o conservazione». «Per noi la terra è vita – ha concluso Carling – e abbiamo il diritto di decidere cosa succede sulla nostra terra».

[di Stefano Baudino]