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Il greenwashing è ancora un grande problema per il settore della moda

Sono molte le aziende attive nel fast fashion che descrivono i loro capi come frutto di una produzione sostenibile – utilizzando nelle etichette parole come “eco”, “green” e “cares” – e che si dicono in prima linea per la promozione di migliori condizioni di lavoro. In molti casi, però, tali informazioni non sono veritiere, trattandosi invece di greenwashing, ovvero “ecologismo di facciata”. Lo ha svelato l’ultimo report [1] di Greenpeace Germania, che ha analizzato i dati riportati sulle etichette degli indumenti di 29 aziende che aderiscono alla campagna Detox [2], lanciata dalla stessa organizzazione (che chiede di eliminare le sostanze tossiche per l’uomo e inquinanti per l’ambiente dai capi d’abbigliamento), e quelle di marchi internazionali come Decathlon e Calzedonia/Intimissimi.

Tantissime le anomalie appurate. Tra le più numerose, etichette presentate come certificate ma che in realtà derivano da programmi di sostenibilità aziendali, l’assenza di una verifica di terze parti o della valutazione del rispetto dei migliori standard ambientali e sociali, la mancanza di un sistema di tracciabilità delle filiere e una falsa narrazione sulla circolarità. Inoltre è stato più volte registrato il ricorso massiccio a termini fuorvianti come “sostenibile” o “responsabile” associato a materiali che registrano performances ambientali solo leggermente migliori rispetto alle fibre vergini o convenzionali, il continuo ricorso a mix di fibre come il “Polycotton o Policotone” spesso presentato come più ecologico, nonché la scelta di affidarsi all’indice Higg (strumento assolutamente parziale) per valutare la sostenibilità dei materiali.

Le uniche iniziative che hanno ottenuto buoni risultati sono quelle di COOP “Naturaline” e Vaude “Green Shape”. Bocciati, tra gli altri, anche Decathlon “Ecodesign”, H&M “Coscious” e Zara “Join Life”. Per quanto riguarda i marchi italiani sotto esame, Benetton e Calzedonia, i risultati sono negativi: nel primo caso sono state appurate in particolare storture e inaccuratezze su quantità e qualità della produzione, nonché sulla definizione ingannevole di “cotone sostenibile”; nel secondo sono state registrate irregolarità sulle dichiarazioni riferite alla tracciabilità delle filiere e sulla gestione delle sostanze chimiche pericolose.

Secondo Greenpeace, un ricorso così marcato al greenwashing genera “confusione nelle persone, spinte a credere di acquistare prodotti sostenibili ma che in realtà non lo sono”. Infatti, “mentre si pubblicizza una sostenibilità inesistente, in realtà sono in costante aumento gli abiti fatti di plastica usa e getta derivante dal petrolio, non riciclabili e per lo più prodotti in condizioni di lavoro inaccettabili“.

[di Stefano Baudino]