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La Norvegia vieta l’import di prodotti provenienti dai territori palestinesi occupati

La Norvegia ha annunciato ieri, mercoledì 26 aprile, che imporrà il divieto di importazione di merci e servizi provenienti da aziende che «contribuiscono direttamente o indirettamente agli insediamenti illegali israeliani nei territori occupati, in quanto costituiscono una flagrante violazione del diritto internazionale». Oslo aveva già preso una decisione in questa direzione nel giugno del 2022, quando aveva stabilito che l’etichetta “made in Israel” sarebbe stata autorizzata solo per i prodotti realizzati effettivamente in Israele e non per quelli provenienti dai territori occupati illegalmente nel 1967, tra cui le alture del Golan e la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est. Questi territori, infatti, furono occupati da Israele durante la guerra dei Sei Giorni e, nonostante la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite imponga a Israele di ritirarsi dalle zone conquistate, lo Stato ebraico ha confiscato la terra ai palestinesi nelle aree occupate per costruire illegittimamente insediamenti in cui solo i cittadini ebrei israeliani possono vivere, cacciando e ghettizzando i palestinesi. «I prodotti alimentari provenienti da aree occupate da Israele devono essere etichettati con l’area di provenienza e devono indicare che vengono da un insediamento israeliano», si legge nella nuova normativa di Oslo.

Nel dicembre del 2022, il fondo sovrano norvegese aveva annunciato che avrebbe potuto rivedere i suoi investimenti in Israele interrompendoli a causa del coinvolgimento delle banche israeliane con aziende che operano nei territori occupati, specialmente in Cisgiordania. La notizia, riportata [1] dal Time of Israel, è particolarmente rilevante anche perché il fondo sovrano norvegese è il più grande del suo genere al mondo, possedendo circa l’1,3% delle società quotate in borsa: esso gestisce e investe i proventi delle risorse naturali del paese a beneficio del budget per lo sviluppo del governo e vale circa 1,3 trilioni di dollari. Il fondo aveva investito in circa 80 aziende israeliane, ma successivamente ha ceduto numerose società in tutto il mondo per attività che considerava non etiche, comprese diverse società israeliane con insediamenti nella Cisgiordania.

Il processo di disinvestimento in Israele del fondo norvegese è stato ulteriormente accelerato dall’elezione di Benjamin Netanyahu, il cui governo comprende diversi ministri e forze politiche ferocemente antipalestinesi. Lo ha riferito il canale israeliano Channel 12, citando un funzionario anonimo a conoscenza della questione, il quale ha dichiarato che «I nostri sforzi per dissuadere il fondo da questa azione saranno difficili da portare a buon fine di fronte alle politiche dichiarate del [nuovo] governo riguardo ai territori [occupati]». L’amministrazione di Netanyahu, infatti, con una forte componente sionista religiosa, intende muoversi verso l’annessione integrale della Cisgiordania, come ha riferito sempre Channel 12. L’impegno afferma apertamente che il popolo ebraico «ha un diritto naturale sulla Terra di Israele» e quindi «il primo ministro guiderà la formulazione e l’avanzamento delle politiche nel quadro dell’applicazione della sovranità in [Cisgiordania]». Riguardo al potenziale disinvestimento del fondo norvegese, il ministro degli Esteri israeliano ha affermato che «siamo consapevoli di questo grave problema e lo stiamo gestendo».

L’annuncio [2] del governo di Oslo sul divieto di importare beni provenienti dalle aree occupate della Palestina segue di pochi giorni quello della città belga di Liegi, che ha votato per porre fine a tutti i legami con Israele citando il suo regime di «apartheid, colonizzazione e occupazione militare» contro i palestinesi, e di pochi mesi quello della sindaca di Barcellona, Ada Colau, che ha rotto [3] il gemellaggio istituzionale della città catalana con Tel Aviv. La sindaca aveva motivato la decisione con la condanna del regime di apartheid che subiscono i palestinesi, cacciati dalle loro terre dai coloni israeliani. Non è mancata l’accusa di «antisemitismo sofisticato» nei confronti della decisione di Colau da parte di Israele e della Federazione delle comunità ebraiche di Spagna. Fatto che, in ogni caso, non ha intaccato la scelta della prima cittadina di Barcellona.

Una posizione – quella di Oslo, Liegi e Barcellona – molto distante da quella assunta dal governo italiano, dichiaratamente sionista e i cui partiti di maggioranza sono tra i più filoisraeliani d’Europa. Secondo una classifica stilata dalla Coalizione europea per Israele, infatti, la Lega è il primo partito italiano quanto a votazioni in favore di Israele all’Europarlamento e il quarto in Europa, con una percentuale pari al 96,3%, seguito da Fratelli d’Italia con l’84,4%. Il legame dei partiti italiani con Israele è foriero di un doppio standard che porta a condannare le violazioni dei diritti umani solo dove c’è un tornaconto politico, soprassedendo o ignorando del tutto, invece, quelle che avvengono da parte dei Paesi “amici”. Al contrario, le tre città europee citate stanno cercando – almeno sulla carta – di porre fine alla complicità nelle gravi violazioni dei diritti umani da parte dello Stato ebraico.

[di Giorgia Audiello]