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Il governo aggira la legge Severino: politici ricandidabili se patteggiano la pena

Ai politici a rischio di condanna penale basterà aver scelto di patteggiare la pena per potersi ricandidare alle elezioni: è questo il succo di una circolare [1] inviata ai Prefetti dal Viminale lo scorso 17 marzo, in prossimità del voto alle amministrative. Si apre così un’importante crepa nella Legge Severino, introdotta nel 2012 sotto il governo di Mario Monti per limitare la corruzione nell’ambito della pubblica amministrazione, che equiparava la condanna e il patteggiamento come cause di inidoneità assoluta alla candidatura.

La svolta arriva in seguito all’accoglimento di un parere dell’Avvocatura generale dello Stato da parte del dipartimento per gli Affari interni e territoriali del Viminale. Nel documento diramato dal Ministero dell’Interno, si legge che “Tutti i soggetti, per i quali sia stata pronunciata sentenza di patteggiamento ex art.444 cit, non incorrono più in una situazione di incandidabilità, potendo così concorrere alle prossime elezioni”, tranne che nei casi di applicazione di pene accessorie. Nel parere viene infatti evidenziato che la riforma Cartabia – entrata in vigore sotto il governo di Mario Draghi – ha ridotto gli effetti extrapenali del patteggiamento: essa prevede infatti che “se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi, diverse da quelle penali, che equiparano la sentenza prevista dall’art. 444, comma 2, alla sentenza di condanna”.

In poche parole, la legge Cartabia ha prodotto l'”abrogazione tacita” della Severino. Infatti, tra coloro che si avvalgono del patteggiamento, può essere ora escluso dalla competizione elettorale soltanto chi viene punito dal giudice con la pena accessoria dell’interdizione. Se ciò non accade, la legge Severino diventa inapplicabile nei confronti di chi sceglie di patteggiare, che può così essere tranquillamente inserito nelle liste elettorali. Tale modifica ha valore retroattivo: tutti coloro che fino ad ora erano incandidabili per giurisprudenza consolidata, potranno dunque rimettersi in pista e concorrere alle amministrative.

Nello specifico, per i rappresentanti di governo, per i consiglieri regionali, per i sindaci e per gli amministratori locali, la legge Severino prevede [2] in caso di condanna incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica. La norma contempla poi la sospensione di cariche a livello comunale, regionale e parlamentare quando la condanna avviene in un momento successivo alla nomina. Basta poi una condanna in primo grado per coloro che sono in carica in un ente territoriale per l’attuazione della sospensione, che può avere una durata massima di 18 mesi.

L’abrogazione della legge Severino aveva costituito l’oggetto di uno dei più importanti quesiti [3] dei referendum sulla giustizia promossi lo scorso anno dalla Lega e dai radicali. I cittadini furono chiamati al voto il 12 giugno del 2022, ma il quorum non venne raggiunto, attestandosi l’affluenza a un misero 20,9%. A sostenere quei referendum era stato in primis Carlo Nordio, poi divenuto Ministro della Giustizia nell’attuale governo di Giorgia Meloni, il quale aveva bollato la legge Severino come “incostituzionale e inopportuna“, sostenendo fosse stata approvata “per ragioni di demagogia politica e nata male come tutte le norme che nascono con questa motivazione”. È bastata la Legge Cartabia per infliggerle la prima grande picconata.

[di Stefano Baudino]