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Fedeltà, fiducia, fede

La vita di ciascuno di noi ha uno stampo tipicamente relazionale. L’identità personale, l’individualità stessa non può venire pensata al di fuori di una gamma multiforme di rapporti con gli altri. Con gli altri esseri viventi, intendo, ma anche con le cose, con gli oggetti reali e percepibili, e così pure con le entità che non conosciamo direttamente, perché sono lontane da noi o perché pensiamo che esistano anche senza averle mai incontrate.

Ma la relazione, le relazioni funzionano anche quasi come una richiesta di essere, di esserci che ci perviene dall’esterno, una domanda che riguarda, in fondo, lo spazio, il valore che noi attribuiamo a ciò con cui siamo in rapporto.

Qual è appunto la qualità di questo rapporto? Si tratta di qualcosa di unilaterale o di alternante, ammette la reciprocità o la subordinazione, è persistente o è transitorio, è di tipo progettuale o si trova già definito, e infine quale altra forma di legame e affinità prevede?

Questi interrogativi investono soprattutto una speciale area di attività simbolica, immaginativa che è attinente, nella accezione più generale e arcaica, alla fedeltà personale, nella forma in cui l’ha presentata Emile Benveniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee (trad.it. Einaudi 1976). L’origine remota è quella di una società guerriera, di un ordine militare, e dunque dipendente dal legame fra chi deteneva una autorità e colui che gli era sottomesso per un impegno personale. Ma indica anche una amicizia guerriera tra pari oppure quella tra ciascuno e la truppa di cui fa parte.

L’espressione per eccellenza, nota Benveniste, della nozione di fedeltà è espressa dalla parola latina fides ‘fede’ che contiene anche accezioni di confidenza, obbligo e promessa. Interessante l’evoluzione che, dai vincoli militari, scivola verso aspetti morali, comportamentali, dove, se si traduce fides con ‘fiducia’, emergono nelle testimonianze antiche due distinte prospettive: la fiducia che qualcuno ha verso di me, da un lato, e dall’altro la fiducia che io sono in grado di ispirare. E tutto ciò in analogia col concetto di credito, nello specifico il credito di cui si gode presso il partner, oppure, in un altro caso, la fiducia che sono in grado di suscitare da parte di un interlocutore, quindi la mia affidabilità.

Il credere, il credito, la credibilità sono dunque la posta in gioco nel campo della fedeltà, della fiducia e anche della fede. Ecco pertanto emergere in pieno il concetto di relazione e di reciprocità, per cui la fiducia e/o la fedeltà nascono nello scambio, nella specularità di un atteggiamento.

Questa specularità diventa perfino curiosa nel campo della fede, assume un sapore teologico, perché la fede non è allora soltanto un sentimento gettato nell’ignoto, alimentato da una speranza trascendente, ma fa parte anche di un paradosso, quasi che Dio dovesse avere fede in me perché io possa avere fede in lui. Da un punto di vista cristiano, interessante notare che il fedele debba rivolgersi al Signore perché sia lui a rafforzargli la fede, ma questo fa parte di uno di quei rovesciamenti di prospettiva richiesti proprio al fedele, per cui non si può avere fede se non si ha “una profonda fiducia nella grandezza della vocazione umana” (così affermava Giovanni Paolo II).

In ogni caso, qualunque sia la prospettiva entro la quale scegliamo di agire, qualunque sia l’ambito del nostro credere o non-credere, la conversione vera e propria, suggerisce Benveniste, è quella che l’umanità ha incontrato nel proprio sviluppo storico, e precisamente quella che consiste non più nella fiducia che uno risveglia in qualcun altro ma nella fiducia che noi mettiamo in qualcuno. Di conseguenza fedeltà, fiducia, fede, ma anche la parente stretta ‘confidenza’, non sono qualcosa che ci dobbiamo attendere ma qualcosa che dobbiamo suscitare. In gioco c’è la nostra iniziativa, la nostra volontà di provocare determinate reazioni, l’esempio che offriamo perché ci venga restituito, scambiato come in un dono. Fedeltà, fiducia, fede come doni dunque per cui si attende una ricompensa, una reciprocità, quanto meno una risposta.

L’evoluzione, la conversione a cui abbiamo accennato riguarda la conoscenza di se stessi: bisogno che nasce in Occidente circa mille anni orsono, l’idea cioè di una singolarità umana, di una specificità di ciascuno di noi che si va poi a misurare nello scambio, nell’incontro, nell’attesa. A parere di Colin Morris, autore de La scoperta dell’individuo (trad. it. Liguori), questa novità si era avvertita con la nascita della scrittura autobiografica di cui era stato antesignano Agostino di Ippona, all’inizio del V secolo. “Se tu non conosci te stesso, mettiti in viaggio”, annotava Guglielmo di Saint Thierry intorno al 1130.

In effetti, come ha mostrato la ricerca glottologica, fides è parente del verbo latino credo, l’aver fiducia è strettamente legato al credere: al credere in se stessi, al credere in qualcuno all’insegna della interdipendenza e del bisogno scambievole. In effetti fides, la fede, è parola collegata al greco péithomai, ‘obbedire’, ‘persuadere’, ‘pregare’. Essa ha a che fare con una promessa, un convincimento che determina un obbligo. Gli aspetti giuridici, psicologici, perfino religiosi, diventano quindi strettamente legati. L’avere fiducia raffigura una pratica nutrita di principi quasi mistici, imponderabili. Ma non vorrei trascurare un altro aspetto, che accenna al fondamento naturale del provare e dimostrare fiducia.

In conclusione, non posso fare a meno di ricordare le pagine di un piccolo libro, per certi versi superato: E l’uomo incontrò il cane (trad.it. Adelphi 1973), del fondatore dell’etologia moderna, Konrad Lorenz, il quale nota qualcosa che assomiglia molto alla dimensione guerriera di cui abbiamo parlato all’inizio. Una forte ragione dell’attaccamento di un cane risiede nella fonte istintuale che lega il cane selvatico alla figura del capo branco ma anche nell’affetto personale che unisce fra di loro i compagni di branco.

Se poi passiamo dall’attaccamento alla fedeltà, cioè al rapporto di affezione del cane con un determinato padrone, le parole con cui Lorenz chiude quel libro sono quasi commoventi. “Per ragioni di ordine naturale, l’uomo non può restare fedele a un solo cane ma certo può esserlo alla sua stirpe. È nella legge della natura che questa sia per lui più importante dell’individuo e che, di conseguenza, il cane sia più fedele dell’uomo. Quando per silenziosi sentieri in mezzo ai prati, su polverose strade di campagna, oppure in città la mia Susi mi cammina alle calcagna con tutti i sensi tesi a non perdermi, allora lei è tutti i cani che mai abbiano trottato alle calcagna del loro padrone: una somma incalcolabile di amore e di fedeltà!”.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]