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Israele: nasce la polizia governativa per reprimere oppositori e palestinesi

Il governo di Benjamin Netanyahu ha approvato la costituzione della “Guardia nazionale per Israele”, un corpo di polizia governativa subordinata al Ministero per la Sicurezza nazionale. Il dicastero è guidato dal ministro Itamar Ben-Gvir nonché leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit, tra i sostenitori della riforma giudiziaria sospesa lunedì scorso da Netanyahu in seguito alle proteste [1] che da mesi attraversavano il Paese. Per tenere unita la coalizione, il primo ministro ha istituito la Guardia nazionale, che «fungerà da forza dedicata qualificata e addestrata per gestire, tra le altre cose, varie situazioni di emergenza, criminalità nazionalista e terrorismo», come fa sapere il governo. Palestinesi, forze di opposizione e centri per la difesa dei diritti umani hanno prontamente bollato il nuovo corpo di polizia governativa come una “milizia privata” nelle mani di Ben-Gvir.

Quando la riforma [2] della giustizia è stata sospesa, la coalizione di governo ha vacillato: i capi dell’estrema destra hanno inizialmente minacciato di dimettersi, prima di negoziare la propria permanenza. L’esecutivo ha così approvato un finanziamento di un miliardo di shekel, pari a circa 250 milioni di euro, per la Guardia nazionale, riducendo di 1% il budget di altri ministeri. Itamar Ben-Gvir ha definito l’istituzione della polizia governativa «una notizia importante per i cittadini israeliani e che migliorerà la sicurezza personale». Diverse cariche pubbliche hanno invece criticato l’iniziativa, come l’Avvocatura generale dello Stato che ha parlato di impedimento legale a causa della sovrapposizione dei compiti con la polizia. Nei prossimi 90 giorni, una Commissione formata da “tutti i settori della sicurezza di Israele” dovrà precisare le prerogative della Guardia nazionale e fissarne la composizione. Secondo indiscrezioni rilanciate dai media locali, dovrebbero essere coinvolti circa 2000 militari.

L’attuale governo israeliano è composto dalla coalizione più sbilanciata a destra nella storia del Paese. Un compromesso obbligato per il ritorno al potere di Benjamin Netanyahu, che senza la protezione da primo ministro avrebbe dovuto rispondere delle accuse di corruzione davanti alla giustizia. Il caso ha voluto che sia stato proprio il tentativo di riformare la magistratura il punto di non ritorno della propria carriera politica. Netanyahu si trova, infatti, a gestire sia la delusione della frangia radicale dell’opinione pubblica sia il malcontento di una parte della popolazione che si professa democratica e inclusiva, rimuovendo [3] però la questione palestinese dalle proprie proteste antigovernative. «Se la democrazia è quando ogni cittadino, indipendentemente dalla sua religione, setta, razza o genere, gode del diritto di partecipare agli affari pubblici, allora questo non vale per Israele fino a quando lo stato applicherà un sistema di apartheid etnico-religioso», ha dichiarato il ricercatore Ali Mawasy. Sono rare le voci israeliane che uniscono, sotto l’ombrello democratico, la deriva istituzionale a cui andrebbe incontro il Paese se dovesse passare la riforma della giustizia e le politiche di occupazione e di estrema violenza contro i palestinesi in Cisgiordania, a Gerusalemme o nella Striscia di Gaza.

Il capo della polizia Kobi Shabtai ha definito l’istituzione della Guardia nazionale come una misura «non necessaria e dagli alti costi», che può «danneggiare la sicurezza personale dei cittadini e il sistema di sicurezza interno del Paese». Un’attenzione di certo non estesa ai cittadini arabi di Israele, che vivono situazioni di disagio sociale ed emarginazione rispetto ai concittadini ebrei. Nessun riferimento, inoltre, alle violenze della polizia nei confronti della popolazione araba residente nei territori occupati. Nell’ultimo rapporto pubblicato [4] da Amnesty sulla situazione dei diritti umani nel mondo, viene sottolineato come i doppi standard e le risposte inadeguate alle violazioni umanitarie abbiano alimentato impunità e instabilità. L’organizzazione non governativa ha citato in primis il rifiuto di contrastare il “sistema di apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi”. Per coloro che vivono nella Cisgiordania occupata, sottolinea Amnesty, il 2022 è stato uno degli anni più mortali da quando, nel 2006, le Nazioni Unite hanno cominciato a registrare i numeri delle vittime: lo scorso anno sono stati 151 i palestinesi uccisi, tra cui decine di bambini. Il partito Balad, in riferimento ai palestinesi che vivono nelle città miste o nei territori occupati, ha bollato l’istituzione della Guardia nazionale come un terribile pericolo per decine di migliaia di persone che saranno alla mercé di “una banda armata legale che obbedirà a un ministro già condannato per terrorismo”.

[di Salvatore Toscano]