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Io sono arrivato

Non era ancora l’alba quel giorno. Dovevo portare il solito carico di frutta al mercato. Alle prime luci avevo rivolto lo sguardo al cielo, pieno di nuvole in movimento, provavo a capire i segni del domani, se mai l’Onnipotente avesse voluto svegliare in me sentimenti di dubbio.

Poi sulla strada ho incontrato quel vecchio, il maestro, che portava le maschere nel carretto. Ho chiesto alla maschera della scimmia se stavo facendo qualcosa di schifoso o di inevitabile. La faccia di legno mi ha sorriso con un ghigno misterioso, quello che avevo visto da ragazzo quando al rito di iniziazione mi avevano chiuso nella capanna senza quasi poter respirare. Quando ero poi uscito, stravolto, il prato era pieno di cormorani morti, un segno che il lago era avvelenato e che, prima o poi, mi aspettava un futuro inquietante.

Il mascherone enigmatico, ora, non mi dava un responso sicuro. Abdul ormai aveva preparato i camion, le donne dei due villaggi avevano lasciato gli anziani. Nessuno aveva pianto, ognuno di loro che restava dava consigli, affidava i bimbi alla cura degli antenati, qualcuno metteva piccole collane ai loro colli, l’aria si riempiva di canti, c’era una grande agitazione, tutti volevano darsi da fare.

Sentivo qualcosa di strano. Era come se fossero cambiati gli odori intorno a me. Come se si fosse spento il fuoco aspro delle spezie che inondava quell’angolo di mondo. L’aria sapeva di futuro, di un futuro incerto, le palme avevano abbassato le loro braccia come in segno di resa.

Più lontano una folata di polvere, il mio camion stava arrivando. Mi sentivo meno solo, tutti eravamo in tensione. Avremmo voluto annullare il tempo, proprio noi africani per cui il tempo è come una musica, un ritmo, non una durata. Allora, no, c’era una scadenza vicina. Tanti contavano ancora una volta se il denaro c’era tutto, il primo da dare sul camion, l’altro per l’imbarco, sempre che ci avessero presi.

Settecento miglia non era poi una distanza enorme, due giorni sul camion, qualcuno avrebbe raccontato le storie antiche, le fiabe delle anime sugli alberi, del cammello parlante, della miniera sconosciuta, dei due fratelli nemici e della sorella saggia. “I racconti sono come il cibo”, ripeteva il maestro nostro amico, e tutti eravamo d’accordo. Non si può digiunare di canti e di storie.

Laggiù, anzi lassù, la nostra carovana si sarebbe fermata, una carovana non di spezie e cacao ma di donne, uomini e bambini pronti anche a morire ma soprattutto uniti come un’anima sola.

Nafsi hufanya mwili uwe hai lakini mtu anapokuf nafsi hiyo hutoka. Lo spirito dà vita al corpo ma lo abbandona alla morte.

Se fosse morto anche soltanto uno di noi, lo spirito avrebbe lasciato tutti e per chi restava sarebbe stato inutile ricominciare un’altra vita. Era il pensiero di tutti. E due giorni dopo sulla costa il sorriso si era spento, proprio allora che avremmo dovuto avere coraggio.

I tre armati che parlavano una lingua a noi sconosciuta ritiravano i nostri soldi, davano a tutti una bottiglietta d’acqua e un ramo di datteri. Non si poteva avere altro. E poi il mare, il cielo bagnato come diceva il nostro canto. Silenzio, paura, speranza. Chi riusciva a dormire si era appoggiato al vicino che invece stava con gli occhi sbarrati. Ma non serviva a nulla perché era quasi notte e le preghiere restavano chiuse nei nostri cuori.

Eravamo in trenta, più o meno, continuavamo a guardarci senza parlare, con un freddo addosso che non avevamo mai provato, la bocca sbarrata dalla paura, dalla fame e dalla sete, poi dopo circa sei-sette ore ci ha avvicinato una grande barca e il nostro pilota era salito lì sopra.

Ci aveva spiegato a gesti che cosa dovevamo fare per andare avanti da soli. Ma ora la mia memoria si è come spenta. Abbiamo ricominciato a parlarci, a cercare di capire se ce l’avremmo fatta con quelle onde, umiliati dal fetore degli escrementi, aspettando una improbabile pietà, intanto era spuntata all’orizzonte una nave che sembrava quella di prima e che segnalava qualcosa. Qualcuno di noi stava raccontando di chi conosceva nel Paese di arrivo, dove pensava che fosse.

Non abbiamo fatto in tempo a capire, si erano accostati per caricarci. Ma non sapevamo niente delle altre barche partite con noi.

Ora sono sulla riva, sono salvo, sono anche felice ma il mio sguardo va all’indietro, da dove sono venuto. E cerco di non piangere.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]