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Israele nel caos dopo la più grande notte di proteste: esercito in stato di allerta

Ormai da 12 settimane consecutive proseguono le proteste in Israele contro la riforma della Giustizia promossa dal premier Benjamin Netanyahu, capo del Likud e leader di una formazione considerata di estrema destra sionista. La riforma – presentata dal ministro della Giustizia Yariv Levin, comporterebbe un ridimensionamento sostanziale dei poteri della Corte suprema rafforzando al contempo quelli dell’esecutivo: una parte della riforma, già approvata venerdì scorso in prima lettura, prevede, ad esempio, che a dichiarare decaduto il Primo ministro, a seguito di una condanna, potrà essere solo il governo, mentre il Parlamento dovrà limitarsi a ratificare la decisione. Il che avvantaggerebbe Netanyahu, al momento indagato per abuso d’ufficio e corruzione. In seguito all’approvazione di venerdì di una parte della riforma, 630.000 persone sono scese in piazza nelle principali città israeliane per protestare contro la legge: sabato 25 marzo circa 300.000 persone si sono riunite a Tel Aviv, 65.000 a Haifa, 22000 a Gerusalemme, 20.000 a Beersheva, per un totale di oltre 120 proteste. La riforma, inoltre, è contrastata anche da una parte dell’esercito e da 12 settimane i cittadini hanno dato vita a un movimento di protesta chiamato “Movimento Ombrello di Resistenza contro la Dittatura in Israele”. Nei giorni scorsi, l’esercito è stato messo in stato di allerta: a Gerusalemme i manifestanti hanno sfondato i cordoni della polizia e hanno cercato di radunarsi sotto l’abitazione del primo ministro israeliano Netanyahu.

 

A peggiorare ulteriormente le cose è stata la decisione del Primo ministro israeliano di licenziare il ministro della Difesa Yoav Gallant [1] per aver pubblicato un tweet in cui si dichiarava contrario alla riforma, in quanto «mette in pericolo la sicurezza di Israele», chiedendo anche un rinvio del voto parlamentare a dopo la festa dell’indipendenza di Israele, a fine aprile. Netanyahu ha, dunque, deciso di rimuoverlo dall’incarico ritenendolo non «più idoneo a svolgere il suo servizio per il governo». Ma ad essere contrario alla riforma è anche il presidente israeliano Isaac Herzog che su Twitter ha invitato [2] il governo a bloccare il processo di riforma: «In nome dell’unità del popolo di Israele, in nome della responsabilità, vi invito a fermare il processo legislativo. Una profonda ansia ha attanagliato la nazione. La sicurezza nazionale, l’economia, la società: tutto è minacciato». Un appello che, insieme alle proteste, deve aver smosso Netanyahu, il quale, secondo diverse agenzie di stampa, nella notte ha riunito il governo per discutere su come procedere. Secondo alcune indiscrezioni, oggi alla Knesset – il Parlamento israeliano – potrebbe annunciare un congelamento momentaneo [3] al progetto di riforma, nonostante la ferma opposizione, in questo senso, del rappresentante dell’ultradestra sionista, Itamar Ben-Gvir, ministro per la Sicurezza nazionale, e del Partito Sionista Religioso.

Nello specifico, la riforma in questione intende limitare i poteri della Corte Suprema e modificare la composizione della Commissione che ne elegge i membri: ad oggi, in Israele ogni legge può essere annullata dalla Corte Suprema, la più alta istanza giudiziaria del Paese con sede a Gerusalemme. L’istituzione ha un ruolo molto importante perché serve a controbilanciare il potere del governo che – oltre alla Corte – ha pochi contrappesi. Essa, quindi, ha assunto il ruolo di principale organo di controllo del potere dell’esecutivo con una serie di sentenze che le hanno dato il potere di abolire qualunque legge approvata dalla Knesset. Attualmente, la Corte suprema non si limita soltanto ad abolire le leggi che sono contrarie alle Leggi fondamentali, come fa per esempio la Corte costituzionale italiana, ma ha un potere molto ampio di revisione della legislazione, secondo precisi criteri. Con la riforma giudiziaria contestata dalla maggioranza dei cittadini israeliani, invece, una proposta di legge giudicata non conforme alle Leggi fondamentali dalla Corte, dovrebbe essere rinviata dai giudici alla Knesset e, se i deputati la rivotassero a maggioranza semplice, supererebbe ogni opposizione della Corte depotenziandola. In questo modo, il governo in carica avrebbe un potere quasi assolto annullando sia il ruolo dell’opposizione che quello della Corte Suprema. Inoltre, la riforma comporterebbe anche una modifica nella composizione della Commissione che elegge i giudici, sia quelli della Corte sia quelli “inferiori”. Attualmente, la Commissione è composta da nove membri: tre giudici della Corte suprema stessa, due rappresentanti dell’associazione forense israeliana, due membri del parlamento e due ministri del governo. Già ora, dunque, sono presenti quattro membri di nomina governativa che influenzano il potere giudiziario. Ma l’esecutivo vorrebbe addirittura portare i membri della Commissione a undici, di cui ben nove scelti dal governo, ottenendo così un forte potere d’indirizzo sulla componente giudiziaria e facendo di fatto cadere la separazione tra i poteri, principio cardine dei sistemi che si definiscono democratici.

I manifestanti sostengono che la norma sia un attacco alla democrazia [4] che, eliminando l’indipendenza dei giudici, favorirebbe la corruzione e priverebbe la Corte israeliana di credibilità, mettendo a rischio i diritti delle minoranze, tra cui gli arabo-israeliani e i palestinesi. L’attuale formazione di governo, infatti, è caratterizzata da una forte componente religiosa ed estremista sionista che, come d’altronde anche le opposizioni, distingue i propri cittadini su base etnica e religiosa, comprendendo diversi diritti e doveri: ad esempio il servizio militare obbligatorio viene richiesto ai cittadini ebrei, ma non ai musulmani arabo-israeliani, una minoranza composta dai palestinesi che nel 1948 hanno deciso di restare nel nuovo Stato prendendone la cittadinanza.

La riforma della Giustizia sta portando ad una crisi di governo in Israele, in quanto la decisione di Netanyahu di congelare la proposta di legge ha comportato la minaccia, da parte di Ben Gvir, di far cadere il governo. L’esponente del partito sionista religioso Otzma Yehudit, inoltre, ha invitato i suoi sostenitori a contro-manifestare a sostegno della riforma, mentre il ministro della Giustizia Levin ha messo in chiaro che «rispetterà» qualunque decisione, ma ha sottolineato i rischi per la tenuta della maggioranza. Il governo, infatti, è appena rimasto a galla per soli sei voti in una mozione di sfiducia fallita con 59 voti contro e 53 a favore.

[di Giorgia Audiello]