- L'INDIPENDENTE - https://www.lindipendente.online -

L’onestà e l’onore

Le etimologie sono d’aiuto. Il fatto che onestà e onore siano parole con analoga etimologia fa pensare. Che cos’hanno davvero in comune? Le società umane che cosa riconoscono di valido ad ambedue i termini?

Andando per intuito sembra che l’onestà, rispetto all’onore, abbia un significato positivo più generalizzato, più profondo ma anche più astratto, mentre l’onore riguardi di più il rapporto del singolo con la collettività che gli riconosce di aver agito rispettando le regole.

Nell’Antica Roma si era anche edificato un tempio dedicato congiuntamente a Onore e Virtù ma prima di tutto erano la Fiducia e la Concordia a fondamento del buon andamento della collettività e della salute pubblica, come ricorda Georges Dumézil nei suoi studi. E tutte queste erano le divinità a protezione della buona fede, del rispetto delle promesse e dei patti. L’onore, nel suo senso arcaico (corrispondente al greco géras), viene riconosciuto dall’insieme dei membri di un gruppo sociale, in rapporto al buon esito della spartizione del bottino, ad esempio a seguito del saccheggio di una città. Queste sono le considerazioni di Emile Benveniste a proposito di un passo dell’Iliade di Omero. Rimane comunque frequente l’insoddisfazione di qualcuno, in questo caso Achille, nel risultato della suddivisione. E dunque inevitabili le lotte sanguinarie che ne conseguono. Pensiamo a tutti i film in cui i complici litigano sul bottino, perché qualcuno, a buono o cattivo titolo, vuole impadronirsi della parte degli altri.

Niente di nuovo dunque sotto il sole: l’onore è una faccenda che può degenerare se è connessa a un atto di violenza, o per gli eccessi di qualcuno o per il mancato riconoscimento del merito e dei diritti di ciascuna parte in gioco in rapporto alle altre. L’onore dunque attiene alla socialità e alla posizione che qualcuno pensa di poter assumere esercitando un diritto che ritiene gli provenga dalla natura o dalla tradizione. In questo senso si evidenzia il significato antropologico dell’onore, la sua forza ancestrale, quasi totemica, apparentemente irrazionale. L’etnologo Salvatore D’Onofrio parla dell’onore come di “un capitale simbolico che l’intera società o parti di essa chiedono all’individuo di non disperdere con atti ritenuti contrari al sistema di valori dominante”. Tragicamente tipico il cosiddetto delitto di onore, quando erano ancora sopravvisuti, nel ruolo maschile delle relazioni tra uomo e donna, valori distorti quasi totalmente superati dai tempi. E ancora il concetto di onore si collega all’infedeltà nelle raffigurazioni corporee della vergogna e del dileggio, come ad esempio le corna, simbolo noto in tutta Europa e non soltanto nel nostro Paese. Dove l’ironia interviene soltanto a patto che si rinunci alla violenza e il dramma si consumi soltanto sul piano verbale dell’insulto, dello scherzo e della derisione.

Dunque l’onore dal posto altisonante di grande virtù scende al basso corporeo e si può trasformare, in seguito al mancato rispetto dell’amicizia obbediente e della pretesa fiducia reciproca, in movente di delitti. L’onore, dunque, al di fuori del potere sembra che non possa esistere.

Con il suo contraltare emotivo: la paura, il sentimento del ricatto. Come scriveva Leonardo Sciascia ne Il giorno della civetta (1960), “la paura gli stava dentro come un cane arrabbiato: guaiva, ansava, sbavava, improvvisamente urlava nel suo sonno; e mordeva, dentro mordeva, nel fegato e nel cuore”. Perché “niente è la morte in confronto alla vergogna”.

Onestà, parente stretta di onore, in quanto ambedue parole derivanti dal latino honor, sembra invece sfidare quasi il potere e mostrare una tenacia originaria, una trasparenza, l’ambizione di farsi riconoscere, di non aver nulla da nascondere. L’onestà è ambiziosa, percorre l’azzardo di chi vuole “ancora una volta scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia” (L. Sciascia, Una storia semplice). L’onesto, come scriveva Dostoevskij, non ha paura di rivelare, di denunciare il male per affermare il bene. L’onestà non è soltanto un principio ma un progetto, è proiettata non come l’onore in un riconoscimento ma nell’ammissione, da parte di ognuno, dei propri limiti e delle proprie colpe che spetta soprattutto a chi è giudice. Come scrive, quasi paradossalmente, nei Fratelli Karamazov, “se io fossi davvero giusto, forse non ci sarebbe neppure quel delinquente che ora sta davanti a me”. Dunque l’onestà corre il rischio di farci sbagliare e per questo è direttamente connessa alla responsabilità individuale di ciascuno.

Onore allora contro onestà? Potere contro responsabilità? Sui limiti e gli incroci di questi due concetti si gioca molto del dramma umano e della felicità pubblica.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]