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CPI contro Putin: il fallimento annunciato dell’uso politico della legge internazionale

La Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso un mandato di arresto nei confronti del presidente russo Vladimir Putin. L’accusa: l’aver commesso un crimine di guerra, ovvero aver deportato bambini ucraini in Russia. Un altro mandato di arresto è stato emesso nei confronti della commissaria per i diritti dei bambini al Cremlino, Maria Alekseyevna Lvova-Balova. Come sottolineato dalla portavoce del ministro degli Esteri russo Maria Zacharova, tuttavia, la CPI non ha giurisdizione in Russia, non avendo questa mai ratificato [1] lo Statuto sul quale si basa la CPI (come nemmeno l’Ucraina). Di fatto, la Corte starebbe procedendo per crimini commessi da uno Stato non membro sul territorio di un altro Stato non membro, cosa che rende difficile pensare che l’iniziativa si possa tradurre in un risultato davvero concreto.

L’ipotesi di un’indagine su possibili crimini di guerra commessi da Mosca era stata aperta all’incirca un anno fa [2]: da allora, il presidente della Corte Karim Khan ha effettuato tre viaggi in Ucraina, per visitare i luoghi dove sarebbero stati commessiteli crimini. Secondo quanto rilevato, Putin sarebbe ritenuto [3] “responsabile del crimine di guerra di deportazione illegale di popolazione (bambini) e di trasferimento illegale di popolazione (bambini) dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia”. L’arresto di Putin è di fatto imprescindibile affinché possa essere ipotizzato un qualsiasi ruolo della CPI, la quale non può avviare processi in contumacia.

La Corte Penale Internazionale ha sede a l’Aja, nei Paesi Bassi. Il suo ruolo è occuparsi di alcune fattispecie di crimini che riguardano la comunità internazionale, ovvero i crimini contro l’umanità, il crimine di aggressione, i crimini di guerra e il genocidio. La Corte – la quale può avviare processi contro i singoli individui, ma non contro interi Stati – ha base giuridica nello Statuto di Roma, che ad oggi è stato ratificato da 123 Paesi in tutto il mondo. Tra i grandi assenti dalla ratifica vi sono Stati Uniti, Russia, Cina, Israele: tutti Paesi, insomma, con una mira imperialistica di qualche tipo, che sia esercitata nell’insospettabile forma del riportare la democrazia in un certo Paese o in maniera più subdola. Nemmeno l’Ucraina ha mai ratificato lo Statuto. La Corte esercita [4] i propri poteri sul territorio degli Stati firmatari ma, grazie ad apposite procedure, questi possono essere estesi al territorio di uno Stato non facente parte che lo richieda (come ha fatto l’Ucraina nel 2014). Si tratta quindi di uno strumento potenzialmente molto utile per punire chi si macchi di reati contro l’umanità di particolare gravità, non fosse per il fatto che, spesso, il suo utilizzo sembra più assecondare determinati equilibri geopolitici che la ricerca di un più alto criterio di giustizia.

Nelle zone teatro di alcuni dei più sanguinosi conflitti del nostro tempo i crimini di guerra sono stati tollerati, se non del tutto ignorati, dalla comunità internazionale (ovvero dalle forze politiche occidentali) perché in larga parte adducibili a una superpotenza: gli Stati Uniti. Quando la Corte ha mostrato l’intenzione di indagare su presunti crimini di guerra e abusi di altro genere commessi dai militari americani in Afghanistan o altrove (in particolare “atti di tortura, trattamento crudele, offese alla dignità personale, stupro e violenza sessuale contro detenuti in relazione al conflitto in Afghanistan e altre violazioni, principalmente nel periodo 2003-2004”), gli USA hanno replicato di fatto minacciando [5] il personale della CPI di revocare o negare i visti di ingresso nel Paese. Inoltre, l’ex Segretario di Stato americano Mike Pompeo aveva dichiarato che si sarebbero riservati di fare lo stesso con chi avesse tentato azioni analoghe contro Israele. «Siamo determinati a proteggere il personale militare e civile Americano e alleato dal vivere nel timore di essere ingiustamente perseguiti per azioni intraprese per difendere la nostra grande nazione» aveva dichiarato. Le pressioni furono tali che, nel dicembre 2021, la CPI annunciò ufficialmente di aver sospeso le indagini a carico dei soldati statunitensi.

Altro esempio: nel 2006 la CPI ricevette centinaia di segnalazioni (240 in tutto) da parte di ONG e attori della società civile che denunciavano [6] le uccisioni di massa dei civili che stavano avendo luogo in Iraq a seguito delle operazioni del Regno Unito (Paese firmatario dello Statuto di Roma). In quell’occasione il procuratore giustificò l’impossibilità ad intervenire con il fatto che l’Iraq si trovasse al di fuori della giurisdizione della Corte e che altri Stati membri non avevano segnalato la necessità di procedere con accertamenti. “L’uccisione di civili non costituisce di per sé un crimine di guerra” aveva ricordato, aggiungendo che “dopo aver analizzato tutte le informazioni disponibili, si è giunti alla conclusione che esistesse una base ragionevole per ritenere che fossero stati commessi crimini di competenza della Corte, ovvero uccisioni volontarie e trattamenti inumani. Le informazioni disponibili al momento supportano una base ragionevole per una stima tra le 4 e le 12 vittime di omicidio intenzionale e un numero limitato di trattamenti inumani, per un totale di meno di 20 persone”.

La fattibilità delle operazioni avanzate dalla CPI è quindi tutta ancora da verificare: certo si è tentati di pensare che l’Occidente stia utilizzando qualsiasi strumento a disposizione per soffiare sul fuoco di un conflitto dagli equilibri al momento altamente incerti.

[di Valeria Casolaro]