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Sono arrivati i ‘deinfluencer’: nuova frontiera del consumo critico (e dei like)

Don’t buy this jacket” è la frase usata da Patagonia in una celebre campagna del 2011 in cui il marchio in questione suggeriva di non acquistare la loro giacca. Un’immagine che ha fatto scalpore, considerata addirittura “suicida” dai guru del marketing e che invece ne rafforzò l’identità e l’autorevolezza. Un gesto indubbiamente inusuale, di contro-tendenza; simile a quello che sta succedendo sul web ultimamente, dove a fianco di influencer che promuovono la qualunque a suon di #adv, le pubblicità della rete, stanno apparendo figure che suggeriscono cosa non comprare. Ribattezzati prontamente Deinfluencer (che non manchi mai un’etichetta!), sono persone dotate di profili social con più o meno seguito che stimolano alla riflessione, cercano di mitigare l’acquisto d’impulso e invitano a non inciampare nelle trappole del marketing della rete. Paladini del consumo critico, evidenziatori di stili di vita alternativi, instillatori di dubbi. L’altra campana, insomma, in un mondo digitale dove i social sono diventati un tassello imprescindibile dell’e-commerce. Una voce fuori dal coro, quella che invita a non essere “solo” consumatori, ma persone consapevoli, in grado di maturare un proprio pensiero e slegarsi dalla convinzione dilagante del “compro dunque sono”.

In questo caso, il suggerimento preferito dai deinfluencer è “posso anche non comprare nulla”, consci e convinti che la differenza si possa fare senza mettere mano al portafoglio. Finalmente qualcuno che solleva i comuni mortali dall’ansia da prestazione!

Eppure c’è già chi parla [1] di ennesimo hashtag acchiappa consensi, puntando il dito contro chi farebbe di tutto pur di saltare all’attenzione del grande pubblico e andare virale in poco tempo (forse è la viralità il nuovo virus, che ci fa ammalare di sindrome da gratificazione istantanea?). Il fenomeno non è recente e, per molti, non è nemmeno una tendenza momentanea di facciata.

Dagli anti-haul al deinfluencing

In principio erano gli haul, ovvero quei simpatici video, diffusi tramite la piattaforma di Youtube, nei quali le persone si divertivano a mostrare i loro acquisti. Un po’ come quando, dopo un giro di shopping, si tornava a casa svuotando il contenuto delle buste per farlo vedere a mamme/sorelle/amiche, così si fa davanti ad una telecamera, parlando con i futuri spettatori per informarli del bottino dell’ultimo giro in centro. Un esilarante momento d’intrattenimento; senza dubbio una valida alternativa al tiggì delle venti, che ha fruttato milioni di visualizzazioni ai pionieri di questa tipologia di video. Accanto alla quale, però, nel 2015 è apparso il suo opposto: il primo video anti-haul [2], della drag queen Kimberly Clark, che si diverte a elencare le cose che “non comprerà” durante le vacanze. Una mossa che, nel tempo, è stata seguita da molti e generato tantissimi filmati a tema e altrettante visualizzazioni. 

Per vedere apparire la parola de-influencing, declinata come verbo, bisognerà aspettare il video di Maddie Wells del 2020, nel quale parla di alcuni prodotti cosmetici che venivano restituiti dalle clienti di note catene per le quali lavorava. Una sorta di pubblicità-negativa, o insomma, un racconto onesto e non edulcorato che riportava fatti realmente accaduti. La parola fu poggiata lì quasi per caso, ma nel tempo divenne rilevante, tanto che a oggi, sui social, è un vero e proprio trend che appare in milioni di video. Fin qui nulla di male, anzi; ben venga armare le persone con la conoscenza e ampliare le conversazioni online, passando dalla lista della spesa a riflessioni sul consumo e sul contesto culturale. Si può attivare il pensiero anche con un minuto di video su TikTok!

Mentre il fenomeno avanza, non manca chi maligna sul fatto che si tratta dell’ennesima bolla di sapone, nata sulla scia della crisi economica, in un periodo in cui tra inflazione, incertezza sul futuro e attenzione alla sostenibilità, è più facile ascoltare un influencer che dice cosa non comprare anziché dare retta ai soliti consigli per gli acquisti (che uno non si può permettere). I più spietati (o forse quelli che hanno paura di perdere il proprio ruolo influente) sostengono che i deinfluencer sono coloro che, non essendo riusciti a entrare nell’olimpo degli influencer con la i maiuscola, stanno tentando di entrare nel giro dalla porta di servizio, sfruttando temi caldi e di rottura per attirare consensi

Una linea che, come dimostrano i dati, paga dal punto di vista sociale (le persone, soffocate da consigli per gli acquisti di cose di cui non si ha bisogno, sembrano gradire messaggi di altro tipo), un po’ meno dal punto di vista professionale. In fin dei conti si troveranno sempre più aziende disposte a pagare per una pubblicità a favore, che imprese che ingaggiano deinfluencer onesti e in linea con principi etici. E questo, per chi di lavoro crea contenuti online, non è sicuramente una scelta che strizza l’occhio al conto in banca. 

Gli influencer possono dormire sonni tranquilli: nessuno porterà loro via il lavoro. Potrebbero però prendere ispirazione da questa tendenza e iniziare ad apportare piccoli cambiamenti, moderando i suggerimenti in un’ottica meno consumistica e variando il tono della narrazione. 

L’importante, come al solito, è essere coerenti. Salvaguardare la propria credibilità, supportandola con adeguata informazione e con una convinzione di fondo; perché basta un piccolo scivolone, una bugia costruita a regola d’arte o il seguire un trend-topic per crescere rapidamente, a determinare il crollo della propria reputazione. La comunità di seguaci si sente ingannata, perde fiducia e abbandona: questo mina pericolosamente la base del proprio lavoro, influente o de-influente che sia.

Noi, che guardiamo, leggiamo e ascoltiamo, dobbiamo, in ogni caso, tenere le antenne dritte e il cervello in moto: fidarsi sì, anche con chi è in linea con il nostro pensiero, ma sempre con il beneficio del dubbio. 

[di Marina Savarese]