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La società civile che si ribella: Libera e la gestione dei beni confiscati

Un’immensa distesa di verde che si perde all’orizzonte. 120mila metri quadrati di terreno che ospitano 350 orti urbani e oltre 5000 alberi. Così si presenta ai miei occhi la Masseria Antonio Esposito Ferraioli, il bene confiscato più grande dell’area metropolitana di Napoli intitolato a una delle vittime della criminalità organizzata.

Antonio Esposito Ferraioli lavorava come cuoco alla mensa dell’azienda FATME a Pagani, in provincia di Salerno. Ferraioli era però anche un sindacalista che per il suo impegno – come nelle indagini sull’utilizzo di carne di provenienza sospetta all’interno della mensa – venne freddato sotto casa la notte del 30 agosto 1978. Il suo ricordo vive tra le scritte disseminate qua e là all’interno del bene, nei gesti dei volontari e nell’organizzazione degli eventi, come quello realizzato lo scorso 5 marzo, in occasione del sesto compleanno della Masseria.

Giù le mani dalla Masseria Antonio Esposito Ferraioli

[Cartello intitolato al maresciallo Gerardo D’Arminio, vittima della camorra.]

Prima di addentrarmi nel verde e incontrare i volontari, attratto da un murales colorato, poso lo sguardo su una struttura rurale che scopro essere la Masseria. Dovrebbe trattarsi del centro nevralgico delle attività svolte dalla rete di associazioni e cooperative che ha ridato dignità ai 120mila metri quadrati di bene confiscato. Il condizionale è d’obbligo, visto che i lavori di ristrutturazione necessari alla sua rinascita hanno incontrato pesanti ostacoli politici e burocratici. Dopo la confisca alla camorra negli anni ‘90, il bene ha infatti vissuto venti anni di abbandoni e incuria, durante i quali l’occupazione abusiva a vario titolo da più persone l’ha fatta da padrona. Una condizione che in Italia diventa spesso prassi nel sistema di gestione dei beni sottratti alla criminalità organizzata: tra la confisca e l’assegnazione passano anni, se non decenni, come nel caso della Masseria. In questo lasso di tempo s’insediano persone senza alcun titolo, spesso vandalizzando e distruggendo il possibile a ridosso dell’assegnazione.

È ciò che successo anche ad Afragola quando si è arrivati alla messa al bando del bene sottratto al clan Magliulo. L’attuale direttore della Masseria, Giovanni Russo, mi racconta che nel 2017 ad accogliere la nuova gestione, formata da una rete di realtà sociali, fu una «situazione delirante», dal momento in cui all’indomani della pubblicazione del bando il bene confiscato venne dato alle fiamme, distruggendo la quasi totalità del pescheto presente. In più, nei mesi che precedettero l’assegnazione, la Masseria fu oggetto di ripetuti sversamenti di rifiuti. Iniziò così la seconda Odissea per quello che dovrebbe essere il fiore all’occhiello di ogni amministrazione perché luogo di sconfitta delle mafie, come recita il cartello all’ingresso. Invece, come mi spiega Giovanni, ancora oggi «la Masseria è attanagliata da una serie di questioni spiacevoli». Il ritardo istituzionale dell’assegnazione del bene confiscato è soltanto la punta di un iceberg che cerca quotidianamente di rallentare il cammino della Masseria Ferraioli e dunque la sua totale restituzione alla collettività. Negli ultimi anni si è perso il conto delle intimidazioni ricevute, sfociate spesso in furti mirati e strategici. L’ultimo, in ordine cronologico, risale alla fine di gennaio e interessa le impalcature di ferro del cantiere che dovrebbe far rinascere la Masseria. Si tratta dell’ennesimo stop ai lavori finanziati dall’Unione europea che aspettano di essere completati – pena la perdita del milione e mezzo di euro di fondi – entro la fine dell’anno. Va ricordato che tale somma di denaro è stata versata dallo Stato italiano nelle casse del Comune di Afragola nel giugno 2018 per far partire i lavori e ristrutturare quello che era il fortino del clan.

Giovanni mi descrive con orgoglio i progetti che dovrebbero sorgere all’interno della Masseria: dalla casa di accoglienza per donne e minori a un centro di formazione, passando per un bar al negozio in cui vendere ciò che viene prodotto, luoghi strumentali all’avviamento dei percorsi di impresa sociale capaci di creare posti di lavoro e combattere la criminalità organizzata anche sul piano occupazionale ed economico. L’entusiasmo di Giovanni cede il passo all’amarezza quando mi racconta dell’opposizione del Comune di Afragola attraverso un’inerzia amministrativa tale da rinviare l’inizio dei lavori fino al 2021, quando il Prefetto di Napoli nominò commissario prefettizio il vice prefetto Anna Nigro, la quale avviò finalmente il cantiere. Un entusiasmo durato pochi mesi, dal momento in cui la giunta di destra (guidata da Fratelli d’Italia), insediatasi nell’ottobre dello stesso anno grazie alla vittoria del candidato Andrea Pannone, ha iniziato a seguire la strada tracciata dalla vecchia amministrazione procedendo a rilento nella gestione dei lavori, affidati per legge al Comune e non all’ente sociale (beneficiario indiretto).

Ricordando il principio di sussidiarietà, presente nella Costituzione italiana, con Giovanni mi pongo il medesimo interrogativo: perché lo Stato, che di fronte alle minacce subite dalla Masseria ha mostrato la propria solidarietà, non interviene sollevando il Comune dal compito di condurre i lavori? Una domanda lecita, vista l’inadempienza dell’ente minore manifestatasi anche in una successiva richiesta che ha spiazzato la comunità vicina alla Masseria. L’IKEA deve infatti rimborsare il Comune di Afragola, attraverso una serie di opere compensative, una cifra pari a 10 milioni di euro. A tal proposito, l’ente ha chiesto al colosso svedese la realizzazione di uno svincolo autostradale che andrebbe a distruggere la nuova realtà sociale. La sua esistenza è inoltre minacciata da una delibera del 25 febbraio 2022 con cui il Comune di Afragola ha stabilito la necessità di costruire un canile su tutta la superficie della Masseria. Due progetti in contrasto con il buon senso ed evidentemente incompatibili con i finanziamenti europei.

[Orto urbano della Masseria Antonio Esposito Ferraioli.]

Nonostante le questioni spiacevoli, la Masseria rappresenta oggi un valido esempio di lotta e successo nei confronti della criminalità organizzata, che al netto di poche eccezioni che ne ostacolano il cammino può contare sull’appoggio della stragrande maggioranza delle istituzioni e dei cittadini. La nuova gestione, oltre a ridare dignità sociale al luogo, coinvolge quotidianamente volontari e visitatori di ogni età, per un processo continuo di condivisione del sapere e delle conoscenze. A questi si aggiungono i beneficiari diretti, coloro che per decenni sono stati privati di un polmone verde, prima per mano della camorra e poi per l’abbandono e il degrado successivi, e oggi ne godono con serenità i vantaggi. «Abbiamo trovato enorme energia nelle persone, perché per tutta la vita entrare in questo spazio gli era vietato», commenta Giovanni. Il pensiero va ai 350 orti urbani, che a breve diventeranno 400, assegnati a centinaia di famiglie, le quali coltivano personalmente cibo di qualità viste le analisi costanti di acqua e terreno. Insieme alle piante, crescono le relazioni, lo spirito civico e il senso di comunità. Per alimentarli, e ricordare alla collettività che un’alternativa alle mafie è sempre possibile, la Masseria Antonio Esposito Ferraioli invita la popolazione a vivere il bene comune aperto a tutti.

A questo si aggiunge l’intensa attività sul territorio: un impegno che va dall’ospitare e organizzare incontri con la comunità, con particolare riguardo nei confronti delle scuole e università, alla partecipazione a manifestazioni ed eventi. Come mi ricorda Giovanni mentre indica il vigneto in lontananza, un bene confiscato e assegnato a realtà sociali rappresenta una doppia vittoria economica per un Paese. Alla criminalità organizzata viene infatti sottratto un immobile acquisito in modo illecito e al suo interno sorge un’alternativa al fenomeno mafioso, che oltre all’importante contributo dei volontari necessita di figure professionali per la sua gestione e dunque crea posti di lavoro. Fini economici e sociali s’intersecano nella vita del Terzo settore, un insieme di organizzazioni che in un Paese sovrano, democratico e nemico delle mafie non può che essere al centro del dibattito politico e dunque di una tutela costante. Perché se le mafie sono un fenomeno economico, combatterle non può che passare dalla creazione di un’economia legale alternativa.

Cascina Caccia, ovvero l’importanza della memoria storica

[L’esterno della Cascina.]

Molto più a nord di Afragola, tra le colline del Monferrato, in Piemonte, sorge Cascina Caccia, bene sequestrato alla famiglia ‘ndranghestista Belfiore, legata a vari traffici nel nord Italia e al primo e unico omicidio di un magistrato in queste zone. Il nome di Bruno Caccia è riecheggiato spesso tra le pareti di casa mia, soprattutto per via di mia madre e dei suoi anni trascorsi come cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino, titolato al magistrato ucciso dalla mafia. Il suo nome è ritornato a farsi sentire con maggior vigore quando, otto anni fa (ad oltre trent’anni dalla sua uccisione) venne fuori che il panettiere sotto casa di mia nonna, dal quale ci rifornivamo con una certa frequenza, era uno degli esecutori dell’omicidio. Ricordo ancora il rumore degli elicotteri che ronzavano sopra piazza Campanella, nella periferia di Torino, e la voce di mia madre che mi diceva «Stanotte hanno arrestato il killer di Caccia. Era il panettiere qui sotto». Nel nord Italia la mafia è percepita come una presenza lontana, aliena, qualcosa che non ci riguarda. «C’è un lavoro culturale molto forte da fare. Al nord non siamo disposti ad ammettere che la mafia c’è. Manca soprattutto una cultura dell’antimafia. Al sud si parla di mafia e antimafia da anni, al nord è necessario un lavoro di costruzione di consapevolezza e lettura del fenomeno» commenta Fabio, uno degli operatori di Acmos, associazione parte della rete di Libera che gestisce Cascina Caccia. La Cascina, mi spiega, ha un ruolo storico, in quanto si tratta del primo progetto di riutilizzo sociale di un bene mafioso dell’intero nord Italia, costituendo tutt’ora il modello per tanti altri progetti di riutilizzo di beni confiscati. «In Piemonte c’è un dato importante da ricordare: si trova al penultimo posto in Italia per percentuale di beni confiscati e riutilizzati, pari all’incirca al 20-30% del totale. C’è sicuramente un forte lavoro da fare in questo senso, a fronte di una forte e comprovata presenza mafiosa, evidente per esempio nell’alto numero di Comuni sciolti per mafia».

La storia della Cascina ha inizio negli anni ’90 quando, nell’ambito di una maxi operazione delle forze dell’ordine che ha coinvolto tutto il nord Italia, viene arrestato Salvatore Belfiore, a quei tempi ai vertici della ‘ndrangheta nella provincia di Torino. Salvatore viene condannato per traffico internazionale di stupefacenti (nell’ambito dell’operazione viene effettuato uno dei più grandi sequestri di cocaina mai realizzati fino ad oggi: quasi sei tonnellate) e associazione a delinquere di stampo mafioso. Proprio quest’ultimo capo d’imputazione permetterà la confisca dei beni e, in particolare, della cascina dove risiede la famiglia, sita nel Comune di San Sebastiano da Po. In quegli anni a salire agli onori della cronaca fu anche il fratello di Salvatore, Domenico Belfiore, «capo di punta della loro famiglia» e mandante dell’omicidio Caccia, mi racconta Fabio.

La sera del 26 giugno 1983, infatti, Bruno Caccia, allora procuratore generale della Repubblica di Torino, viene raggiunto da tre colpi di pistola mentre porta a spasso il suo cane in via Sommacampagna, zona precollinare di Torino ai margini del centro cittadino. I colpi sono esplosi dall’interno di un’auto nella quale, secondo alcuni testimoni, vi sono tre o quattro uomini. L’omicidio, che sconvolge l’opinione pubblica, viene inizialmente attribuito alle Brigate Rosse. «Avvenne un fatto curioso», prosegue Fabio, «alle autorità arrivarono numerose telefonate che sostanzialmente dicevano: ‘Siamo le Brigate Rosse, abbiamo ucciso noi Bruno Caccia’. Erano gli anni di piombo, era facile credere a una cosa del genere». Le indagini successive smentirono questa versione, ma per lungo tempo gli inquirenti brancolarono nel buio. Fu solo grazie al collaboratore di giustizia Ciccio Miano (ex boss del clan dei Catanesi, operante su Torino in quegli anni) che la verità poté venire a galla. Con un registratore infilato nelle mutande, l’uomo inizierà a chiedere informazioni sul caso agli altri detenuti, fino a che non salterà fuori il nome di Domenico Belfiore. «Sostanzialmente, Domenico Belfiore fa intuire una cosa: ‘per l’affare Bruno Caccia dovete ringraziare solo me’. E quindi viene fatto un processo, nel corso del quale lui viene riconosciuto come mandante dell’omicidio Caccia». Giustizia è fatta, ma solamente in modo parziale: mancano infatti numerosi elementi, come gli esecutori materiali dell’omicidio. L’unico ad essere arrestato, ad oltre 30 anni dai fatti (grazie alla riapertura delle indagini presso il tribunale di Milano), è Rocco Schirripa. Il panettiere sotto casa. Come la famiglia Caccia, mi spiega Fabio, oltre l’80% dei famigliari delle vittime innocenti di mafia è tutt’ora senza verità e senza giustizia. Per questo il progetto della Cascina ha scelto di farsi carico di queste memorie e di parlare di Bruno Caccia con tutti coloro che la visitano. La dimensione della memoria diviene quindi un elemento preponderante della missione e dell’attività della struttura ed emerge con particolare forza dall’installazione artistica ospitata nel seminterrato: scaffali alti sino al soffitto pieni di faldoni, ciascuno recante il nome di una vittima innocente della mafia.

[Installazione artistica nel seminterrato della Cascina.]

Il percorso di realizzazione del progetto della Cascina, che oggi ospita un Centro di Accoglienza Straordinario (CAS) e che è fortemente impegnata in attività educative, in particolare con i giovani, è tuttavia costellato di ostacoli e difficoltà. Basti pensare che Salvatore Belfiore è stato arrestato negli anni ’90 ma, anche se la cascina è divenuta nel frattempo proprietà del Comune di San Sebastiano, la famiglia verrà sfrattata solamente nel 2007. E quando gli operatori riescono a mettere piede all’interno, si trovano di fronte a una situazione inaspettata: i pavimenti in materiali pregiati, quali il marmo di Carrara e in parquet di olivo della Calabria, erano stati portati via, così come il piano bar e la scala che portava alla mansarda; i tubi dell’acqua erano stati riempiti di sabbia e cemento, l’impianto elettrico era in corto circuito e qualcuno aveva cercato di dar fuoco alla caldaia. «A quel punto si fa una scelta, si dice: se noi ce ne andiamo da qua c’è il rischio che tornino a finire quello che hanno iniziato, magari dando fuoco a tutto. Allora si dorme in macchina, con il motore acceso e i fari puntati sulla porta d’ingresso e poi man mano si iniziano i lavori per sistemarla. Si è trattato di un lavoro immane, che tuttavia è stato collettivo, vi hanno partecipato in tanti». È proprio la dimensione collettiva, l’idea che si tratti di un bene che arricchisce la comunità, a costituire il principio di fondo: «Si tolgono i beni alle mafie perché questi fanno parte del loro potere economico, ma anche perché sono il segno del potere e della presenza mafiosa sul territorio» asserisce Fabio. E impegnare questi beni in progetti socialmente utili è una maniera per far sì che la mafia, in qualche modo, possa ripagare il territorio e la cittadinanza del male che ha fatto.

Come descritto nell’articolo riguardante i dispositivi antimafia
presente in questo numero del Monthly Report, infatti, con la legge Rognoni-La Torre è stato introdotto il reato di “associazione di tipo mafioso”, il quale prevede la reclusione per chiunque faccia parte di un’associazione mafiosa e la confisca dei suoi beni. Grazie alla legge n.109 del 7 marzo 1996, fortemente voluta dall’associazione Libera, tali beni vanno destinati a scopi sociali. La valenza di una misura simile è evidente: colpire la mafia tanto nella dimensione economica quanto nel suo potere simbolico, restituendo le ricchezze accumulate alla società. In questo sono impegnate le associazioni della rete di Libera, nata nel 1995 e sin da allora impegnata nel contrasto alla mafia tramite l’educazione e l’azione della società civile. Una delle attività principali della rete è proprio quella di dare nuova destinazione ai beni e alle terre sottratti alla mafia, affidandone la gestione a Comuni e associazioni, benché le difficoltà burocratiche spesso rendano i percorsi di riconversione lunghi e farraginosi. Nella Cascina, al momento, vivono una decina di persone: due operatori di Acmos, due persone in situazione di emergenza abitativa e i sei migranti del CAS. «Noi viviamo qui insieme ad altri ragazzi con l’idea di animare, di rendere vivo e abitato il posto, facendo però nostri alcuni valori che sono l’attenzione ai consumi, la risoluzione non violenta del conflitto, la formazione permanente e la dimensione dell’accoglienza, partita all’inizio con l’aiuto a persone in emergenza abitativa e trasformatasi, quando abbiamo acquisito un minimo di struttura in più, nell’accoglienza dei richiedenti asilo». Il CAS è volutamente di dimensioni molto piccole, per promuovere la dimensione dell’accoglienza diffusa che permette un migliore sviluppo delle relazioni e rende più semplice l’integrazione. «Noi non crediamo nei grandi centri di accoglienza, dove le persone sono gestite come polli in batteria» mi spiega Fabio. Nell’area esterna, che affaccia sulle valli del Monferrato, vi sono poi gli orti, le arnie e un noccioleto per la produzione della nocciola tonda gentile del Piemonte dedicato alla memoria di Vito Scafidi, lo studente diciassettenne morto in seguito al crollo di una parte del liceo Darwin di Rivoli nel 2008. Il miele prodotto da Cascina Caccia è il primo prodotto a marchio Libera Terra del nord Italia. La Cascina poi ospita un gran numero di altre attività, dai matrimoni agli eventi educativi per le scolaresche all’estate ragazzi e molto altro. Per i corridoi sono tante le testimonianze anche degli artisti che hanno transitato dalla struttura e che hanno lasciato un loro segno, dalle foto di Letizia Battaglia al murales di GEC, artista di Ivrea impegnato in progetti sociali. Tanti piccoli segnali di un Paese che, attraverso l’impegno civile, cerca di realizzare un grande cambiamento.

[di Valeria Casolaro e Salvatore Toscano]