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Dove finisce un vestito dopo essere stato buttato nei rifiuti tessili?

Che fine fanno i capi dismessi una volta finiti nel bidone giusto (bianco, giallo, rosso, secondo le località), ovvero quello dedicato ai rifiuti tessili? Quella che molto spesso pensiamo sia beneficenza in realtà, una volta raggiunto il cestino, è a tutti i livelli spazzatura. E come spazzatura è trattata. L’obbligo per la raccolta differenziata nel tessile è attivo in Italia dal primo Gennaio 2022, su direttiva nazionale; ma sono i singoli Comuni che decidono come e a chi subappaltarne la gestione, tra cooperative, imprese sociali, consorzi, enti no profit. A differenza di altri materiali gettati, dove il Comune paga l’ente gestore perché se ne occupi, per gli abiti è l’azienda che si occupa di generare ricavi della vendita del materiale raccolto, diventando a tutti gli effetti un lavoro dal quale trarne dei profitti (e potendo decidere in libertà di cosa farne dei vestiti buttati).

Il viaggio dell’abbigliamento inizia con la raccolta, durante la quale i capi sono smistati direttamente dall’ente addetto: una cernita molto sommaria è volta a eliminare esclusivamente ciò che non è indumento (tovaglie, lenzuola, tende, ecc.) o scarpe spaiate. In seguito vengono confezionate le balle, che sono rivendute ad aziende specializzate nella selezione, le quali si occupano di fare una suddivisione dettagliata del materiale, in base alla qualità: tutto quello che è “di marca” e in ottimo stato di conservazione (ebbene sì, le persone si liberano anche di ciò che è nuovo, spesso anche capi cartellinati) finisce nella categoria prima scelta; i capi di fast-fashion tenuti bene finiscono in terza/quarta scelta, mentre i capi rovinati sono messi tra il materiale non più riutilizzabile”. 

Questi ultimi, non più utili ai fini della rivendita al pubblico, sono destinati a realtà che realizzano pezzame, imbottiture, isolanti oppure smaltiti in discarica. La prima scelta è quella che viene ri-venduta a grossisti o negozi di seconda mano in tutto il mercato europeo (che poi ritroviamo tra i banchi dei mercati o in appositi punti vendita). Terza e quarta scelta viene direttamente esportata nei Paesi in via di sviluppo, per essere venduta nei mercati locali (con conseguente sofferenza della creatività e del saper fare del luogo) oppure finire nelle discariche a cielo aperto

Quest’ultima pratica è la base del “colonialismo dei rifiuti” (Waste Colonialism [1]), l’ennesimo atto di supremazia degli stati occidentali travestito da beneficenza. Il termine è stato registrato per la prima volta nel 1989 alla Convenzione di Basilea del Programma ambientale delle Nazioni Unite, quando le nazioni africane hanno espresso preoccupazione per lo scarico di rifiuti pericolosi da parte di paesi ad alto PIL in paesi a basso PIL. È un atto di silenziosa dominazione, esercitato con tonnellate di rifiuti tessili che vanno a soffocare i terreni altrui, occupandoli, inquinandoli e togliendo ossigeno a chi ci vive. Di fatto, il sud del mondo si ritrova a essere la discarica a cielo aperto di un nord sempre più orientato al consumismo e alla sovrapproduzione.

Uno dei siti più rilevanti a questo proposito (ma non l’unico) è il Kantamanto Market di Accra, il più grande mercato dell’usato del mondo. Ogni settimana a Kantamanto vengono scaricati circa 15 milioni di articoli: 60 milioni di capi al mese, nella capitale di un paese che ha una popolazione che a stento raggiunge i 30 milioni di persone. I maggiori esportatori in Ghana sono il Regno Unito e il Canada, seguiti da Stati Uniti e Paesi Bassi, quindi Cina, Corea, Australia e altri paesi.

Qui arrivano le famose “balle”, che vengono acquistate a scatola chiusa (senza poter sapere cosa contengono), e ricomincia la cernita, alla ricerca di qualcosa che possa essere rivenduto per generare un minimo di profitto. A volte va bene, altre volte peggio. La verità è che ogni acquisto è una scommessa che va a influire, in primis, sulla precaria economia dei commercianti locali; in secondo luogo, quasi il 40% dell’abbigliamento che arriva a Kantamanto finisce in discarica immediatamente, andando a impattare negativamente sull’ambiente e sulla salute (le foto del deserto di Accra hanno fatto il giro del mondo). Di fatto l’Occidente sposta strategicamente i propri rifiuti il più lontano possibile, costringendo altri a farsi carico della sua spazzatura. Come dire, lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Peccato che questi occhi non siano in grado di vedere che non esiste nessun mercato capace di assorbire gli eccessi di questo stile di vita. E che, in fin dei conti, siamo tutti parte di un tutto: prima o poi pagheremo il conto delle nostre azioni. Anche se fatte a distanza…

EPR: che ognuno si prenda la propria responsabilità 

Di Responsabilità Estesa del Produttore (EPR) se ne parla già da un paio di anni: si tratta di una normativa europea che cercherà di attribuire, a chi immette i prodotti in commercio, i costi ambientali associati alla gestione del fine-vita del prodotto, quando diventa un rifiuto. In sostanza è il marchio che si dovrà fare carico delle operazioni di raccolta differenziata, cernita e smaltimento. In Francia questa normativa esiste dal 2007 e prevede che i produttori di moda dichiarino la quantità di prodotti messi sul mercato, pagando un contributo per la gestione del fine vita. Anche in Olanda esiste qualcosa di molto simile, al quale il governo ha aggiunto la volontà di trattenere almeno il 10% degli abiti usati su territorio nazionale, evitando l’esportazione in Asia e Africa. La Commissione Europea sta lavorando per unificare la proposta in tutti gli stati dell’EU, analizzando pro e contro dei modelli esistenti; per averla effettiva e funzionante sembra si dovrà aspettare la fine di quest’anno. Ma è indubbia e necessaria una presa di responsabilità, della quantità (spesso abnorme) e della qualità (capi difficilmente riciclabili o smaltibili) degli indumenti messi in circolazione dalle aziende. In questo modo si spera di incoraggiare i brand a progettare le proprie collezioni in ottica circolare e limitare il numero uscite annuali, salvandoci da trend e micro-trend dei quali se ne sente sempre meno il bisogno. 

[di Marina Morgatta]