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Quattro operai sardi protestano su una ciminiera a 100 metri di altezza

Quattro lavoratori dell’azienda metallurgica Portovesme srl, nel Sulcis iglesiente (Sardegna), si sono barricati sulla ciminiera più alta dell’impianto, a 100 metri di altezza «perché non avevamo alternative. Non è stato un colpo di testa, ci hanno fatto troppe promesse, nessuna mantenuta. Scenderemo soltanto quando si vedranno atti concreti». Muniti di casco protettivo e occhialoni da lavoro, gli operai, saliti in cima alla torre (qui il video [1]) a nome di quasi 1200 colleghi (in assemblea permanente nel piazzale dell’azienda) protestano contro la crisi dell’area industriale del Sulcis Iglesiente, dovuta principalmente al costo molto alto dell’energia.

«Oggi 28 febbraio 2023, scaduti i termini del verbale sottoscritto lo scorso 20 gennaio, prende corpo la cassa integrazione di 1500 lavoratori e il licenziamento di 62 lavoratori interinali di Portovesme e San Gavino, nostri colleghi da anni», scrivono i lavoratori di Portovesme srl in un comunicato, lamentando della totale assenza di risposte da parte della Regione, che aveva promesso entro il 28 febbraio di trovare una soluzione insieme all’azienda. Ma non c’è stato alcun intervento. Intanto gli impianti sono praticamente fermi, con la produzione ridotta dell’80%. I sindacati spiegano che il problema, in realtà, non è nuovo, ma il costo che l’energia ha raggiunto oggi, aggravatosi nel 2022 dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, rende la produzione impossibile per l’azienda. «Abbiamo la necessità di avere un incontro urgente al Ministero e trovare una soluzione subito sul fronte energia. La politica deve fornire risposte e mettere in campo ogni iniziativa per salvaguardare i posti di lavoro», ribadiscono i lavoratori, secondo cui l’eventuale chiusura degli impianti avrebbe tra l’altro conseguenze catastrofiche su un territorio già duramente colpito dalla crisi economica e dalla disoccupazione.

Non è la prima volta che le cronache si concentrano sulla zona del Sulcis e di Portovesme. Molte persone conoscono il territorio proprio per via del polo industriale specializzato nella lavorazione di metalli pesanti, uno dei più grandi della zona fino agli anni duemila, prima della crisi. Qui si lavoravano – e si lavorano – principalmente piombo, zinco e cadmio, alluminio, con conseguenze per l’ambiente, come ci si può immaginare, piuttosto pesanti.

Se da una parte le industrie garantiscono posti di lavoro, dall’altra è impossibile non guardare al danno ambientale che provocano. I monitoraggi dell’Arpa Sardegna, fatti su aria, acque (anche sotterranee) e suolo parlano già dal 2008 di concentrazioni di metalli pesanti inquinanti e dannosi per la salute della popolazione, con indici ben oltre la soglia consentita dalla legge. «In cinquant’anni ci siamo bruciati un territorio con tante potenzialità turistiche e agricole. Ormai il terreno attorno non è più coltivabile», aveva detto in un’intervista il sindaco di Portovesme.

Tant’è che, come ha commentato Claudia Zuncheddu, «per la complessità di numero e di tipologia degli elementi inquinanti qui intorno, resta la difficoltà per noi medici ad individuare di volta in volta l’elemento specifico a cui attribuire malattie e decessi». Tuttavia le indagini sull’impatto dell’inquinamento sulla salute degli abitanti sono ancora troppo poche e manca un registro tumori. Ma allora cosa si fa? E come si fa a scegliere tra il diritto alla salute o il diritto al lavoro?

Una soluzione potrebbe essere quella della riconversione degli impianti. E, al tal proposito, una piccola buona notizia c’è (a patto che l’Italia sappia sfruttarla). Negli scorsi mesi l’Europa ha deciso di destinare [2] alle casse del nostro Stato più di un miliardo di euro – dei 17,5 totali a disposizione – nell’ambito del programma Just transition fund (JTF) 2021-2027 per “una transizione climatica giusta” di Taranto (con la sua Ilva) e il territorio del Sulcis, in Sardegna. Lo scopo è quello di riconvertire i territori interessati, dandogli una nuova spinta economica non basata più sul fossile ma orientata verso una riabilitazione ambientale. Il Fondo di fatto è uno strumento finanziario che mira proprio a fornire assistenza a tutte quelle zone che, più di altre, dovranno affrontare delle sfide socio-economiche importanti per intraprendere la strada della neutralità climatica, adeguandosi al resto del Paese.

Nello specifico il Sulcis Iglesiente, un’area che interessa 23 comuni sardi (tra cui Carbonia, Iglesias, Piscinas e Portoscuso) dove ha sede l’ultima miniera di carbone italiana, riceverà 367 milioni di euro. L’obiettivo è quello di finanziare le microimprese, in chiave di economia circolare. Motivo per cui il Fondo ha previsto per più di 2mila lavoratori corsi di formazione improntati all’acquisizione di nuove competenze, rafforzando allo stesso tempo le strutture che li aiutano a cercare un nuovo impiego. È in cantiere, tra l’altro, l’idea di creare sul territorio un grosso centro di produzione di energia pulita e uno per il suo accumulo. Certo, di fondi e investimenti ne serviranno molti altri. Ma da qualche parte bisognerà pure cominciare. La domanda però è una sola: avremo un piano per spenderli?

[di Gloria Ferrari]