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Maurizio Costanzo, una questione di stile

Eravamo nell’autunno del 1992. Mi trovavo ospite al Maurizio Costanzo Show perché avevo scritto un libro su di lui: dico ‘lui’ sia riferendomi al giornalista, sia allo spettacolo da lui ideato e condotto con cui tutti lo identificavamo.

Maurizio Costanzo era dotato di una speciale onestà intellettuale, quindi quella sera non avremmo parlato del mio libro che lo riguardava e che un po’, anche con ammirata ironia, lo celebrava (Del Maurizio Costanzo Show e della religione rumorosa, Aleph, poi Vallecchi). In quell’anno avevo pubblicato quattro libri e Costanzo mi avrebbe interpellato sul mio Semiologia del racconto (Laterza), mettendomi duramente alla prova nel far digerire la scienza dei segni al grande pubblico.

Perché Maurizio Costanzo era un giornalista speciale? Perché faceva l’esame ai suoi ospiti simulando di farli sentire a loro agio. Poteva fingere perfino di adularli per svelare tratti della loro personalità, per testare il loro grado di affidabilità. Nel contempo faceva trasparire la sua antipatia, la sua simpatia o la sua indifferenza verso di loro.

Illuminava la scena con la sua postura arcuata, a tratti incuriosito o provocatore, tra il confessionale e l’interrogatorio, un po’ sfottente e un po’ confidenziale. Tranne nei casi in cui indubitabilmente parteggiava per la sua o il suo ospite.

Amava stuzzicare e anche insinuare, pungolare. Gli piaceva assecondare lo stile pacato ma se la rideva con la violenza verbale di Vittorio Sgarbi o con le allucinazioni da teatro d’avanguardia di Carmelo Bene.

Innumerevoli i suoi convitati, sia celebri o sulla strada di esserlo, oppure anonimi ma significativi. Costanzo aveva la vocazione del casting in pubblico, era geniale nell’amare lo svelamento, quella dote che il grande William Carlos Williams diceva essere il compito del vero artista.

Regista della parola, dello spettacolo verbale in cui consisteva la vera televisione, sfruttava il geniale mix di Teatro Parioli e piccolo schermo, di pubblico a casa e pubblico in sala, mostrando una maestria invidiabile, molto personale e quindi ineguagliabile.

Scrivevo allora di ‘esoterismo di massa‘ a proposito del suo spettacolo, ammiravo soprattutto la sua tenuta discorsiva, la sua regia delle parole, capace cioè di gestire gli interventi dei vari ospiti come frasi di un unico testo, come episodi di un solo racconto. 

Costanzo era anche un capocomico perché l’ultima (anzi la penultima, perché ora ci sono i social) incarnazione della nostra italica commedia dell’arte era appunto la tivù. Proprio totem e tivù, per usare una mia formula di quegli anni. Totem e tivù: Maurizio Costanzo psicanalista di massa, terapeuta degli sgangherati, dei mediocri oppure eleganti, oppure impresentabili personaggi, provvisori o habitués, del suo show. Eroi per un giorno e poi spesso dimenticati. Maurizio Costanzo, invece, proprio non credo che entrerà nell’oblio mediatico, lui che è stato un artefice, un interprete e un testimone della conversazione televisiva: orizzonte oggi improponibile ma sicuramente augurabile, quando sarà finita la stagione ignorante degli insulti e avremo voglia di ricominciare a ragionare.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]